Foto di Manuela Fabbri

martedì 28 luglio 2009

Adele Cambria -- Femminismo...

E' un gesto “femminista” mostrare la propria moglie mentre fa il bidet o siede sul water-closet? E’ quanto sostiene Domenico Colantoni, un pittore senza dubbio interessante che, dopo una serie di quadri sul tema della coppia (o meglio della sua distruzione), ha scelto oggi la macchina da presa per continuare ad esprimersi: e la protagonista di uno dei film, dal titolo idilliaco, <<et joie sont ma vie>> è sua moglie Ornella una fiammeggiante femme revoltée – di cui il marito insegue e filma, implacabilmente, il risveglio, in una giornata qualsiasi.
Un’ennesima deformazione, allora, dello slogan femminista: il personale è politico… Oggi si pretende (ma, non a caso, da un maschio) che il WC. È politico; ma è, per l’ennesima volta, una donna, anzi addirittura la donna per eccellenza, come oggetto di possesso e di uso. E cioè la moglie, la propria moglie, a subire anche questa violenza.

Adele Cambria “IL GIORNO”

Adele Cambria - Freud non è più un lusso

IL GIORNO - Venerdì 20 gennaio 1978 - di Adele Cambria


La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso

I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento

"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.

Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
«Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione.»
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
«Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno...»
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, «fare l'analista» nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e quindi, gradatamente, scomparire.

domenica 26 luglio 2009

L'inizio... Adele Cambria e "il Giorno"


Per leggere cliccare qui:



Tratto da “Dieci giornalisti e un editore” di Luciano Simonelli

venerdì 24 luglio 2009

Pasolini cita Adele Cambria









Di Pier Paolo Pasolini
Tratto da "Poesia '99" Annuario a cura di Giorgio Manacorda.
Questa lirica rappresenta una delle poesie che Pasolini aveva rinunciato ad inserire nella raccolta "Trasumar e organizzar" (Poesie rifiutate 1968 - 1969).
Pasolini voleva con "La poesia dove non c'è" scoprire se e quanto è presente la poesia nelle pagine culturali, nei giornali, nelle scuole e nell'editoria pagamento.
Inutile ricordare la grande amicizia tra Pier Paolo e Adele...

mercoledì 22 luglio 2009

ADELE CAMBRIA --- OLIMPIA MAIDALCHINI PAMPHILJ - COGNATA DI INNOCENZO X°

Olimpia Pamphilj, è probabilmente, l'unico fantasma romano - essendo Roma da sempre, città troppo scettica e solare per inventare fantasmi - ma è certamente l'unico fantasma femminile che la leggenda popolare abbia installato, solidamente, nel cuore della città eterna.

Si racconta infatti che Olimpia, cognata di Papa Innocenzo X° (Gianbattista Pamphilj), allo scoccare della mezzanotte esca, ancora oggi, chiusa in una sepolcrale carrozza nera, dal suo palazzo in Piazza Navona e si diriga a gran velocità a ponte Sisto, sul Tevere sempre stringendo con cupidigia tra le robuste braccia matronali le due casse colme di monete d'oro che sottrasse, ingorda, al Papa moribondo.

Ma, arrivata la carrozza sul ponte, i neri cavalli si imbizzarriscono e precipitano nel fiume la donna più potente e più celebre della Roma secentesca. Fare i conti, ora, negli anni del post-femminismo,delle donne in carriera, della " teoria della differenza sessuale ", con un personaggio come quello di donna Olimpia Maidalchini, cognata di Papa Innocenzo X° e sua intima consigliera (oltre che unica erede), risulta piuttosto imbarazzante.

Fu, senza dubbio la padrona di Roma negli anni del Pontificato di Innocenzo X°, di cui aveva sposato in seconde nozze, il fratello: l'anonimo Pamphiljo Pamphilj, un Nobile già vecchiotto all'epoca del suo matrimonio con la provinciale signora, Olimpia era nata a Viterbo nel 1594), ma che ebbe il merito di introdurre nell'alta società romana questa creatura di una vitalità prepotente, con uno straordinario senso degli affari e delle clientele e, in più, provvista di un sicuro intuito e gusto per le belle arti, il lusso, lo sfarzo.

Fu lei a estromettere da Piazza Navona i fruttaroli che l'ingombravano di vividi colori, ma anche di bucce e immondizie e che s'accamparono quindi a Campo dei Fiori; fu lei a suggerire ad Innocenze X°, di affidare l'abbellimento della casa dei Pamphily affacciata su quella piazza, a Gerolamo Rainaldi, e così nacque, tra il 1644 e il 1650, in pochi anni, lo splendido Palazzo che oggi appartiene all'Ambasciata del Brasile.

Anche la chiesa di S.Agnese, così voluttuosamente, sinuosamente "abbracciata", a Palazzo Pamphily, è opera dello stesso architetto, che era entrato nelle grazie di Olimpia.

E ancora, la mirabolante Fontana dei Fiumi, il Bernini potè realizzarla soltanto perché aveva avuto l'accortezza di regalare alla cognata di Innocenzo X° un prezioso modellino d'argento che ne prefigurava le forme.

Il Papa, nella sua visita quotidiana alla Pimpaccia (così l'avevano soprannominata i romani), vide il progetto e decise di commissionare l'opera al Bernini, che aveva fino a quel momento scartato, perché era stato l'architetto favorito del suo precedessore, Urbano VII° Barberini: e tra i Pamphily e i Barberini le ostilità, prima velate, poi esplicite (Innocenze X° tentò di espropriarli di tutti i loro beni e di espellerli definitivamente da Roma), erano state sempre fortissime.

Insomma, si può dire che Olimpia sia stata l'ispiratrice segreta (ma poi nemmeno tanto), del piano urbanistico concepito da Innocenzo X°, e che, da Piazza Navona al Gianicolo, dove l'Algardi costruì per i Pamphily il delizioso Casino di recente restaurato, contribuì ad accrescere lo splendore di Roma e l'egemonia universale del papato nel momento in cui esso attraversava invece una grave crisi politica, Ovviamente, la Storia, quella con la esse maiuscola, concede a Olimpia, come altre sia pur rare donne cui riuscì, di "ideare", il progetto urbanistico di una città (si veda il caso di Ginevra Bentivoglio a Bologna), soltanto il ruolo dell'intrigante, femminista, fastidiosa "eminenza grigia", alle spalle del proprio uomo: rè, signorotto o Papa. E maggiore è lo scandalo sollevato da tali comportamenti femminili, più chances hanno, le "malvagie",comprimarie dello spettacolo del potere, di restare nella memoria storica, o addirittura come nel caso di Olimpia di trasferirsi nella leggenda.

La fama di Olimpia, senza dubbio, è stata salvaguardata, nel corso dei secoli, dal mito delle sue nefandezze.

Pare che abbia avuto anche un figlio, Camillo, dal cognato monsignore, quando tutta la famiglia Pamphily, si trasferì a Napoli, per seguire Gianbattista, nominato nunzio apostolico presso il viceré spagnolo.

Il figlio, comunque, fu attribuito al marito e lo diseredò quando egli osò sfidarla sposando Olimpia Aldobrandini, che alla mamma non piaceva affatto.

Si racconta pure che la Pimpaccia, non contenta di aver gestito in prima persona potere e ricchezze dello Stato Pontificio (e la statua di Pasquino recitava: "chi è persona accorta corre da donna Olimpia a mani piene e cioè che vuole ottiene. E' la strada più larga la più corta"), finì col derubare il povero Innocenzo X°, in agonia, delle casse d'oro nascoste sotto il suo letto.

Si racconta infine che la Pimpaccia riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli; ma almeno, senza ostentare false pruderie da signora virtuosa, lei dava protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni.

Da "il Giorno" - Adele Cambria

venerdì 17 luglio 2009

Adele Cambria e Marco Pannella

“Il carisma è soltanto una lunga pazienza”

“Ma tu chi sei?”

Interviste inconsuete a personaggi notissimi

PANNELLA

Dall’unione goliardica al Partito Liberale fino ai “nuovi radicali”

di Adele Cambria

SOMMARIO: “Il Pannella che digiuna, il Pannella che s’imbavaglia in Tv: un’espressione folle, un fatto bestiale. La bestia rara, il mostro, il buffone. E’ il risultato della censura televisiva: sono l’unico uomo politico italiano, l’unico leader che per tre anni e mezzo non è mai andato “in voce” né al Tg1, né al Tg2, né al Tg3, né al Gr1, al Gr2 o al Gr3…”. Riflessioni su immagine e identità radicale nel mezzo della campagna per la raccolta di almeno quindicimila iscrizioni al partito radicale.

(IL GIORNO, 21 gennaio 1987)

(a.c.) Nasce a Teramo il 2 giugno 1930, da una madre francese nata tuttavia in Svizzera, e che ha un nome che in Italia è esclusivamente maschile, Andrea (il cognome è Estechon). Il padre è un ingegnere. La famiglia paterna, abruzzese, agiata, di piccoli proprietari terrieri, annovera uno zio monsignore, don Giacinto Pannella, il cui nome viene imposto al bambino, che tuttavia, fin da piccolo, sarà sempre chiamato Marco.

Marco Pannella nasce alla politica molto precocemente, entrando all’Università nell’Ugi (Unione goliardica italiana) e diventandone presto un leader carismatico (aggettivo che non gli piace e che rifiuta costantemente). Accanto a lui nell’Ugi crescono altri uomini politici, tra i quali l’attuale presidente del Consiglio, Bettino Craxi.

Dall’università alla politica, attraverso il Partito radicale che personaggi molto anziani e autorevoli di Pannella (Nicolò Carandini, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Leo Valiani, Bruno Villabruna) costituiscono nel 1955. Pannella, che a quindici anni s’era iscritto al Partito liberale (aveva scoperto in edicola il quotidiano del partito, “Risorgimento liberale”, e ne era stato attratto), coopera a formare ben presto l’ala di punta del nuovo partito: essa prenderà il nome di “Sinistra radicale” e, nei primi anni Sessanta, raccoglierà l’eredità di un partito disgregatosi in parte per la “purezza impolitica” dei suoi fondatori, in parte per la sua “doppia anima” originaria (una laico-liberale moderata e un’altra rivoluzionaria-democratica).

La “Sinistra radicale” - che nasce proponendo, per bocca di Pannella, un’alleanza laica dal Pli al Pci - si caratterizzerà, con la rifondazione del partito (dal congresso del 1967 in poi), attraverso la tematica dei diritti civili. I “nuovi radicali”, come saranno definiti, sono più “politici” che “teorici” (ma anche più “idealisti” che “politici”), e preferiscono comunque l’azione alla riflessione che ha segnato la straordinaria stagione dei convegni degli “Amici del Mondo”. In breve, i nuovi radicali trasferiscono in politica gli emergenti bisogni d’emancipazione della società italiana. Punteranno quindi le loro carte sul divorzio (nel 1968 si costituisce la Lid), l’obiezione di coscienza (Loc), il pacifismo, la liberazione femminile (Mld, Cisa, battaglia per la depenalizzazione dell’aborto), la libertà sessuale (Fuori) e, via via negli anni, la riforma della giustizia e delle carceri, la lotta contro la fame nel mondo, ecc. ecc. Dal 1976 il Pr è presente nel Parlamento italiano, dal 1979 in quello europeo. Il soggettivismo politico, che i radicali reinventano in Italia, fatalmente si riassume in un nome e in un personaggio: Marco Pannella.

Roma, gennaio

Marco, che rapporto hai con la tua immagine pubblica?

“Un rapporto doloroso…”.

- Nel senso che ti ci riconosci, immagino… Ma nessuno si riconosce nell’idea che di lui, o di lei, hanno gli altri… Non è così?

“Questo è un luogo comune - … il fatto di non essere soddisfatto di come la tua immagine arriva agli altri… - e perciò, come tutti i luoghi comuni, è falso. C’è sempre una ragione per cui la tua immagine pubblica risulta alterata. Nel mio caso, io regno attraverso l’assenza, e non attraverso la presenza, nei mezzi di comunicazione di massa.

- Ma se sei uno dei personaggi più clamorosi dell’Italia degli ultimi dieci, quindici anni…

“Clamorosi, forse, ignoti di sicuro. Io esisto, certamente, come tu dici, nell’immaginario collettivo: ma anche Landru esisteva nell’immaginario collettivo, anche gli antifascisti, durante il fascismo, erano demonizzati - e quindi esistevano - nell’immaginario collettivo. Credimi, non sono io quello che appartiene all’immaginario collettivo italiano. E non sono io perché i tenutari dell’informazione televisiva nel nostro paese…”.

- Scusami, io ho l’impressione che tu mitizzi la tv… Non sono in tv, quindi non esisto. Ma a me pare, al contrario, che proprio tu sia la dimostrazione più brillante del fatto che non è necessario farsi vedere in televisione per essere conosciuto. O no?

“Proverò a farmi capire usando un esempio: immagina Luciano Pavarotti, immagina che di lui si senta dire che è un meraviglioso cantante d’opera, si mormori, si vociferi della sua bravura, del suo genio, ma, alla prova dei fatti, per la grande maggioranza delle persone, che non hanno l’occasione o la possibilità di andarlo a sentire in teatro, Luciano Pavarotti sia soltanto una faccia sui nostri teleschermi, il suo grande corpo florido, il suo viso giovanile, e la sua voce, che è il quid, la ragione stessa del suo essere Pavarotti, venga fatta ascoltare ai telespettatori soltanto un attimo, nell’istante del do di petto. Quel do di petto che è il momento massimo della creatività del tenore, della sua arte, del suo genio, della sua fatica, dato così, come un urlo, diventa un’espressione folle e bestiale. Così è per il Pannella che digiuna, il Pannella che si imbavaglia in tv, ecc. ecc. Un’espressione folle, un fatto bestiale… La bestia rara, il mostro, il buffone, o quello che vuoi… E questo è il risultato della censura televisiva: io sono l’unico uomo politico italiano, l’unico leader, diciamo, che per tre anni e mezzo non è mai andato “in voce” né al Tg1, né al Tg2, né al Tg3, né al Gr1, né al Gr2, né al Gr3… Perciò ti dicevo che il luogo comune secondo cui nessuno si riconosce nella propria immagine pubblica è sempre falso. Ci sono delle ragioni per cui non ci si riconosce. Per me sono quelle… Tu dici: sei la dimostrazione più brillante che non serve apparire in tv per essere conosciuto… Ma conosciuto come? Io sono una persona viva e dentro quell’immagine ci crepo. Ma ci crepa anche il Paese… Oggi il 90% della gente se sente parlare di Pannella ride. E’ un riso molto triste, un riflesso condizionato… Ridevano quando digiunavo…”.

- Ecco, il tuo digiuno, il digiuno dei radicali. Parliamone. E’ stato il gesto che più di tutti gli altri, forse, ha consolidato la tua immagine di provocatore irritante, se non di “buffone”… Quando poi gli irlandesi hanno cominciato a morire, digiunando contro l’Inghilterra… Sciascia, ai tempi dei tuoi primi digiuni, scrisse che l’ombra della fame aveva sovrastato per troppi secoli gli italiani perché potessero apprezzare un gesto del genere… E Indro Montanelli, al tempo dei digiuni degli irlandesi, scrisse che tu potevi soltanto o morire o fallire, fallire politicamente, a quel punto… Che cosa rispondi?

“Sciascia ha cambiato totalmente opinione. Io non credo comunque che gli italiani “rimuovessero”, come diceva lui, il digiuno per l’eredità di fame che avevano alle spalle, e quindi scattasse in loro il meccanismo del riso dell’incredulità… No, perché nelle caserme, nelle carceri, anche in Italia, s’è sempre digiunato per protesta. No, è che la classe dirigente aveva stabilito che il digiuno dei radicali era ridicolo e falso. Quindi foto deformi di un Pannella grassissimo trasmesse al Tg1 per illustrare la notizia dei miei digiuni, insinuazioni sul numero dei cappuccini bevuti. Perfino, il digiuno della sete, che ho fatto a Madrid sotto il controllo dei medici, in un ospedale pubblico, e nel corso del quale ho perso quattordici chili in tre giorni e mezzo, è stato messo in dubbio…”.

- Resta il fatto che gli irlandesi si sono lasciati morire…

“Ma perché loro sono dei soldati, il loro digiuno è violento, digiunano contro, contro i nemici; noi invece digiuniamo per la speranza, per convincere i nostri interlocutori a rispettare le regole che essi stesi si sono dati… La prima volta, Roberto Cicciomessere e io digiunammo perché il Parlamento discutesse senza altri rinvii la proposta di legge sul divorzio… Perché la discutesse, non perché l’approvasse… Digiunavamo quindi perché il Parlamento rispettasse se stesso, applicando le regole che s’era dato… E così è stato sempre…”.

Guardo Marco Pannella che, in un giorno di festa, alle dieci del mattino, nella sede dei gruppi parlamentari deserta (se non per i radicali), usa con soavità, per convincermi, l’intera “potenza” del suo personaggio (che io d’altronde conosco dai tardi anni Cinquanta, quando irrompeva nell’austera redazione de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, e, come scrisse più tardi, acutamente, Arrigo Benedetti, tutti si chiedevano: “Ma che ha Pannella? E che vuole?… E’ giovane, è bello, può essere felice, al mondo non esiste solo la politica…”). Faccio, mentre lui torna al suo chiodo fisso, la tv, pensieri probabilmente meschini: per esempio, che sia un grande giornalista frustrato dal fatto di non avere scelto (o potuto scegliere, a causa delle sue idee) questo mestiere. Che abbiano ragione molti suoi ex fedeli, oggi nemici (chi avrà avuto torto, tra loro?), i quali hanno coniato, per lui, uno slogan: “Chi non è con me è contro di sé”. Come dire: la perfezione del ricatto morale. Se non sei con lui, se non lo segui, co

ndividi, obbedisci, vai contro i tuoi stessi interessi. E se poi fosse vero? Comunque, insisto:

- Senti, Marco, a me è sempre parso infantile che i radicali, avendo fatto propria la causa dei senza-potere, continuino a lamentarsi perché non li lasciano entrare nell’area del potere. Non ti sembra una contraddizione?

“Perché tu purtroppo hai una concezione cattolica del potere, lo demonizzi. Il potere che esigiamo noi è altro, è la forza di governo, e del buon governo. Il potere che esigiamo noi è quello parlamentare. Oggi in Italia il Parlamento non ha più nessun potere, dovrebbe invece averlo, e sarebbe una forza positiva. D’altro canto, il Pci non è mai stato forza di governo (dal 1947), ma ha un immenso potere. Il potere è potere sugli altri, e, in questo senso, non ci interessa: il governo, la forza di governo, ha invece come suo riferimento le cose da amministrare, la “res publica”.

- Tu insisti a dire “noi”… Ma per la maggior parte della gente il Partito radicale sei tu. Perché non vuoi ammetterlo?

“Perché non è vero. Sai cosa m’ha detto Craxi, ultimamente? Che quello che non si può non riconoscere ai deputati radicali, nel Parlamento italiano e in quello europeo, è la loro alta professionalità. Ma nessuno lo sa, perché i Cicciomessere, le Bonino, i Giovanni Negri, perfino i Rutelli, cioè acqua, sapone e cocacola, tutti, tutti, hanno voglia a essere bravi… Li censurano!”.

- Ma il carisma…

“Il carisma è soltanto una lunga pazienza. E’ la costanza dell’attenzione, come Simone Weil definiva l’amicizia… Amore, amicizia per gli altri, attenzione, lunga pazienza, questo sono le componenti del carisma”.

- Marco, parliamo del tuo privato. Voi radicali che avete portato la politica nel privato (secondi, in questo, soltanto alle femministe… e non ti arrabbiare!) custodite gelosamente il vostro privato. O, perlomeno, gli altri, i tuoi devoti, custodiscono gelosamente la tua vita privata. Per anni, non si conosceva neppure il tuo indirizzo… Ore è uscito un libro che lo dà, abiti in un’autentica soffitta di via della Panetteria, ed è stato svelato anche il nome della tua giovane compagna, una donna medico, Mirella Parachini…

“Ma io non ho mai tenuto segreto nulla. Vivere alla luce del sole è il sistema migliore per non essere visto. Perché tutti guardano dal buco della serratura. Mirella e io viviamo insieme da tredici anni, e ogni giorno sappiamo, serenamente, teneramente, che può essere l’ultimo del nostro rapporto. Invece dura. Lei aveva sedici anni quando l’ho conosciuta, al Partito radicale, diciannove quando abbiamo cominciato a vivere insieme. Ora è un’ottima ginecologa, ma, poiché non abbiamo potere, come tu dici, giustamente, fa ancora la pendolare… Lavora all’ospedale di Fondi.

“E così come non ho mai tenuto nascosta Mirella (ci mancherebbe altro… è una persona, non un quadro d’autore!), non ho mai tenuto nascosti gli altri che ho amato, che amo… Anzi, ho ostentato le mie amicizie con i compagni. Il mio obiettivo, fin da ragazzo, è stato sempre quello di togliere il fascino della “normalità” all’esistenza, per darle quello della “singolarità”… La vita è amore, l’amore è dialogo, il dialogo include le carezze… e la non violenza delle carezze o è consapevole, o è mero consumo”.

- Avete mei pensato, tu e Mirella, ad avere un figlio?

“Non siamo interessati a perpetuare meramente la specie. Quindi, la scelta di un figlio - se la faremo - significherà per noi due cambiare vita, per dar spazio a una terza persona”.

- Hai detto che, se non riuscirete a raggiungere le quindicimila iscrizioni entro gennaio, dopo lo scioglimento del Partito radicale tu andrai via dall’Italia e ti dedicherai a scrivere… Che cos’è questa decisione? Un lusso, quella della letteratura, che ti ha sempre tentato, e che potresti finalmente permetterti?

“Intanto, non è detto che il partito si scioglierà. Le iscrizioni piovono a ritmo sostenuto, premi Nobel come George Wald e Leontiev, molti ebrei e israeliani (questo mi ha fatto iniziare una riflessione approfondita sulle “colpe” d’Israele), si sono iscritti anche Sharanski e la moglie, e un altro esule dall’Unione Sovietica, il matematico Pliusc… e poi Marek Halter, il creatore del movimento francese “Sos-Racisme”, un leader emergente del nuovo movimento studentesco francese… E Ionesco, e tantissimo altri…”.

- Insomma, come al solito, avete gridato al lupo al lupo…

“Ma non lo sai che se non si fa il dramma si provoca la tragedia?… In quanto alla mia supposta vocazione letteraria, alla scrittura come fine, che tu mi attribuisci ora, nell’età dei capelli

bianchi… Be’, credo di non averla mai avuta, questa velleità. La letteratura non è il mio campo, anche se, ovviamente, ho cercato di nutrirmene per tutta la vita. Quello che invece io intendevo è

la scrittura come Storia, storia di un movimento, quello non-violento, che in Italia si è costituito in partito (i radicali) prima che altrove in Europa… Voglio fare questa Storia, ma con piccoli

libri, cento, duecento pagine, anche pamphlets, nella tradizione illuministica, se vuoi… Perché altrimenti rischiamo di essere sepolti dalla catastrofe della disinformazione. Penso comunque a

libri di dimensione internazionale, perché, fuori del nostro Paese, le nostre idee circolano con molta maggiore intensità e autenticità che in Italia…”.

martedì 14 luglio 2009

Adele Cambria, Storia d'amore e di schiavitù, intervista

Intervista all'autrice che, giornalista impegnata in lotte di segno rivoluzionario, racconta coraggiosamente episodi dolorosi della propria vita.

ADELE CAMBRIA FA PARTE DI DIRITTO DELLA GENEALOGIA più nobile del giornalismo italiano. Ora ha scritto un romanzo il cui titolo farà saltare sulla sedia più di una femminista: "Storia d'amore e di schiavitù".

Lei che ha alle spalle una gloriosa carriera di giornalista impegnata in lotte di segno rivoluzionario non ha avuto timori a raccontare, appena celati dalla finzione letteraria, episodi dolorosi della sua vita. Per pareggiare i conti col passato, l'autrice ha scelto coraggiosamente di dire tutta la verità: per anni si è sentita dilaniata dai suoi amori, i figli, un misterioso amante olandese, l'ingombrante madre. Adele Cambria, che ha lavorato al "Giorno" di Gaetano Baldacci fin dalla fondazione e poi al "Diario della settimana", oggi scrive per il quotidiano "Domani della Calabria", e si riconosce nella definizione che di lei danno i suoi amici: un'umorale dimissionaria.

Oggi vorrei scrivere libri. Ho ancora una grande curiosità per i giornali ma ormai non posso iniziare la mia brillante carriera parte seconda.

Sono già due i titoli che la giornalista ha mandato in libreria da quando non è più dipendente di una testata, e ciascuno corrisponde ad una urgenza personale, mai a strategie commerciali: la raccolta di racconti "L'amore è cieco" e, a quattro mani col figlio, "Tu volevi un figlio carabiniere"

Il giornalismo non le bastava più?

Per me iniziare a fare la giornalista è stato quasi un miracolo. Calabrese, di famiglia cattolica e conservatrice, appena laureata in giurisprudenza dopo essere stata accompagnata per anni da mia madre all'università, iniziare a firmare articoli di costume sulla prima pagina del "Giorno" è stato un record. Mi sono sempre detta: preferisco fare cinquant'anni di ottimo giornalismo che mediocri romanzi. Poi ti accorgi, anche con tutte le mie avventurose esplorazioni, che il giornalismo può essere importante per gli altri ma a te non basta. La superficialità è inevitabile.


Lei è stata collega di giornaliste mitiche.

Io sono tra le prime donne che hanno scritto sui quotidiani nazionali, insieme a Camilla Cederna e Oriana Fallaci. Soltanto che nessuna è stata così incosciente, come me, da sposarsi e fare figli. Devo moltissimo alla Cederna e soprattutto a sua madre. Quando mi chiesero di occuparmi di costume ero appena arrivata a Milano e non conoscevo nessuno. Così per un mese le Cederna, a colazione, mi hanno insegnato tutto.

E la Fallaci?

Lei mi ha teso una trappola, quando eravamo entrambe a Montecarlo per un servizio. Da allora non ci siamo più rivolte la parola.

Questo nuovo libro cosa significa per lei?

Dovevo testimoniare a me stessa la mia esistenza attraverso una storia di generazioni, di sud, di handicap che però sono anche stimmate di autenticità. Allora ho ricominciato dalle genealogie femminili, dalla madre di mia madre morta di parto a ventisei anni. Ho trovato tra le carte di mia madre le lettere di mia nonna che lei per discrezione non aveva mai letto. Io con la violenza che mi deriva da oltre quarant'anni di giornalismo le ho lette e mi sono sembrate così importanti che le ho messe in cima alla mia storia.

E' stato difficile scrivere una storia autobiografica?

La sfida è stata scrivere avendo i personaggi intorno a me. Contro tutte le regole della buona letteratura. Non ho aspettato che tutti fossero morti e che la memoria distanziasse gli eventi. Senza presunzione di arrivare alla sua importanza, un po' come nei suoi "Diari" ha fatto Anais Nin. Ora non temo tanto il giudizio di mia madre, che non legge più, quanto di mio figlio.

Perché la protagonista del romanzo si mette nella condizione di schiavitù?

Lucrezia è il campo di battaglia di due amori predatori: la madre e l'amante. Si mette nella condizione di schiavitù perseguendo l'utopia di far amare tra loro tutte le persone che lei ama. La conquista di oggi, dopo trent'anni di femminismo, è di poter parlare chiaramente di queste cose. Cinquant'anni fa, tranne Sibilla Aleramo che però aveva tagliato i rapporti con la famiglia, nessuno avrebbe osato far convivere nella realtà o in un romanzo madre e amante.

Le donne di oggi potranno riconoscersi in questa storia?

Io credo che molte si potranno riconoscere, ad alcune mancherà un pezzo di storia, altre potranno capire come si snoda nel tempo il destino delle donne.

Il protagonista, Anton, è esistito davvero?

E' stata una mia storia, nemmeno tanto remota. Ma la figura dell'eroe nordico forse io sola la vedo come l'ho descritta. Ormai lui però è prigioniero di queste pagine.

Perché gli uomini continuano a temere i sentimenti?

Anton riconosce di sentirsi invaso, come tanti uomini. Non saprei dire perché: i maschi sono per me un mistero. Luce Irigaray dice che gli uomini e le donne sono irriducibili gli uni alle altre. E quindi bisogna rispettare la distanza dell'enigma.

Tratto da www.stradanove.net, di Mariano Sabatini, 9 marzo 2000

Adele Cambria, Storia d'amore e di schiavitù, Ed. Marsilio sez. Farfalle pag. 216 € 13,43 disponibile su www.ibs.it

domenica 12 luglio 2009

Sulle tracce di Erri De Luca

di Adele Cambria

«Quando avevo due anni, Erri mi ruppe la testa con una pietra… A Ischia…. Dopo ci siamo persi di vista per decenni…». «Quindi non eri tu la ragazzina che lui aspettava invano sul cancelletto di legno, e lei non veniva…? Ti ricordi la storia d'amore fallita, che racconta in 'Non ora,non qui?'». Conversazioni su Erri (De Luca) l'altra sera a Santa Maria in Galeria, appena finita la proiezione del documentario di RaiSat Extra, «Sulle tracce di Erri De Luca», autrice Patrizia Schisa (quella a cui lui ruppe la testa con una pietra), regista Sibilla Damiani. Attenzione: non era una serata mondana, o- se lo era- si trattava di una mondanità talmente essenziale da confondersi con la semplicità più eletta: ristorante rustico, abbondanza di cibo rustico, vino rosso versato quasi apostolicamente dal protagonista, lo stesso scrittore, soprattutto nel bicchiere sempre disponibile di un altro scrittore, Pedrag Matvejevic… L'autrice del documentario- in onda venerdì 8 ottobre su un canale «i cui tempi, luoghi e volti- spiega il suo Direttore, Marco Giudici- non sono quelli della Tv generalista» è dunque un'amichetta d'infanzia di Erri De Luca. E dice Milly, la madre di Erri (ed eccellente co-protagonista del video e della serata): «Mio figlio da piccolo non è che si faceva tanti amici, ma ora è contento, quei pochi, di ritrovarli…». «Allora non eri tu- insisto con Patrizia- la ragazzina del cancelletto?». «Purtroppo no! Ma dopo, verso i sedici anni, ho avuto un flirt con Daniele, il cuigino di Erri... Che ha scritto la musica per la canzone che Erri, nel nostro video, suona alla chitarra...». Ed anche questo potrebbe sembrare uno strano miscuglio, l'alone degli affetti parentali che circonda lo scrittore napoletano nella sua maturità, lui che a diciott'anni- come racconta nel video- si 'scasò'. «Una diserzione totale, dalla casa, dalla famiglia, dalla città, da tutto…»: e addirittura, oggi, rivendica la convivenza con la madre. «Ho l'onore di accogliere nella mia casa la sua bellissima vecchiaia…». Ma infine ecco la storia di Erri De Luca. «Una biografia sceneggiata» è il sottotitolo del video e comincia con lui che cura l'orto, travasa il vino… («Avete fatto sembrare la casa una reggia!», ammirava Milly a tavola). Erri spiega che il suo nome non è un vezzo, ma sarebbe stato Henry, come uno zio dell'Alabama, solo che le leggi fasciste proibivano i nomi stranieri…. «E quando io giravo per la città con questo nome mi pigliavano per americano, Napoli all'epoca era il più grande bordello dei militari americani nel mondo, una città occupata, una città venduta, ed io volevo andarmene… La città mi ha espulso…». Domanda Patrizia: «Lasci Napoli a diciott'anni, e dove vai?». «Non lo sapevo, ma ho scoperto che c'era una intera generazione scasata in quegli anni, la mia…. La generazione che sarebbe diventata, dopo, la più carcerata d'Italia…». Quella «comunità d'insorti», come la chiama lui, finisce attorno agli Ottanta. Lui, che ha preso la maturità classica per non dispiacere al padre- «Dottò, io mi piglio la maturità e poi la vita è la mia!» - fa l'edile a Roma, poi va in fabbrica a Torino, «addetto alla sgrossatura degli alberi-motore». Domanda Patrizia: «Come trova, un operaio, il tempo per scrivere?». «Un pacchetto di dodici ore, otto in fabbrica e quattro per andare e venire, lo hai venduto. Ma io mi alzavo un'ora prima e mentre stavo alla pressa, avevo qualcosa a cui pensare. La sera potevo aggiungere una pagina scritta… Non ho mai capito il turbamento della pagina bianca».

6 ottobre 2004 l'Unitàpubblicato nell'edizione di Roma (pagina 5)

giovedì 9 luglio 2009

Opera omnia in 250 pagine

di Adele Cambria

("Il Giorno", 28 luglio 1986, pag. 3)

«Il borghese non son io che tralappio d'un giorno all'altro / coprendomi di sudore / tutto concimato... Difendo i lavoratori / difendo il loro pane a denti / stretti caccio il cane da / questa mia mansarda piena di impenetrabili libri buoni... Se non mi salvate da queste / strette, stretta la misura / combatte il soldo e non v'è / sole che appartenga al popolo!».

Sono appunto nella mansarda di Amelia Rosselli, un'unica stanza spericolata, attraverso il minimo balconcino, sulla vertigine barocca della cupola e dell'abside della Chiesa Nuova. Ho scelto questi versi, dal suo ultimo poema, «Impromptu», premio Pasolini 1981, perché mi sembrano in qualche modo di essere, di definirsi, e, con feroce pudore, chiedere aiuto (ma non per sé, per tutti).

Pallidissima, magrissima, con occhi celesti dilaganti (a vent'anni, m'hanno detto, somigliava a Ingrid Bergman), con quel suo modo di parlare beneducato, attento a non disturbare gli altri (un tipo d'educazione quasi inverosimile oggi). Amelia osserva che «non bisogna esagerare...»

Non capisco: «Non bisogna esagerare in che cosa?».
«Esagerare a scrivere, - mi risponde -, Vedi, ho già pubblicato nove libri. L'anno prossimo esce la mia opera completa. Duecentocinquanta pagine di poesia. Bastano».

Conosco Amelia dal 1965. Ero ammalata, lei venne a trovarmi in clinica, eppure l'avevo incontrata una sola volta, prima, ma era come se avesse percepito tra lei e me un filo di comunicazione indicibile, quello star male senza una ragione che non fosse, semplicemente, la vita. Per lei, si capisce, c'entrava, alla grande, la Storia: la storia della famiglia Rosselli, dell'antifascismo, la tragedia dell'uccisione del padre, quando lei aveva sette anni, l'emigrazione negli Stati Uniti. Me ne mostrò poi la foto, il giorno dell'imbarco, sette bambini, le due giovani vedove in lutto, la nonna Amelia, da sempre e per sempre, con dolore e coraggio, capofamiglia.

Tra quei sette bambini d'allora - quattro figli di Nello e tre di Carlo - Amelia è forse l'unica ad avere accettato la Cosa (che ha nome Dramma) come Evento Logico. Il suo tentativo continuo, da quando la conosco, è di sbriciolare l'epopea storica che le grava, dalla nascita, sopra le spalle, in una geometrica stravaganza del quotidiano, dove fioriscono grazia e malinconia. Nessun risentimento, nessuna invocazione di indulgenza, nessuna elaborazione filosofica o, tantomeno, psicoanalitica delle vicende traumatiche originarie della sua vita. L'esito di tanto pudore e intelligenza è la sua scrittura, da alcuni definita «sibillina», eppure sotterraneamente attraversata dall'esperienza di un vissuto eccezionale. Per esempio, dal «Diario ottuso» del 1968 (non ancora pubblicato in volume) leggiamo: «... Non pensava di morire, o di morirne, o di dover accettare la pietà altrui... Ora la sapienza, o un barlume, una briciola di sapienza... la risvegliarono e le fecero capire alcune cose. Capì di avere subito un danno, capì che il suo orrore per il malfatto altrui era da considerarsi con indifferenza, perché essa poteva raggiungere ben più alte mete dello spirito, la sua fame di Dio per un istante soddisfatta; anzi si distaccava dalla superficie della terra e lottando chiedeva più pace, più dolcezza, il perdono a sé e agli uomini, senza sapere molto degli uomini ma comprendendone troppo i calcoli, le crudeltà».
Così, segregata nella sua mansarda, come Emily Dickinson nel suo giardino puritano, Amelia smaschera il mondo e tuttavia, con impietosa dolcezza, si rifiuta di condannarlo. Anche per lei, come la Dickinson, Dio è «un'Eclisse che chiamano Padre»?
Certo che ogni giorno, con indomabile gentile pazienza, Amelia contratta vita e poesia alle voci (telefoniche?) che la spiano e inseguono (dal telefono, dal televisore), a volte impartendole ordini «Non leggere, non scrivere» - oppure la costringono ad uscire di casa all'alba ed intanto «qualcuno» mette a soqquadro la sua roccaforte, la mansarda. Tutto ciò, se è obbligata a spiegare, lei lo chiama «noie»... e lucidamente, una volta sulla rivista «Nuovi Argomenti», scrisse della «origine del male...»: «Da dove partano certi attacchi a volte resta un mistero, o un mezzo mistero... Fu un medico ad avere il coraggio di accusare e specificare l'origine del male... La malattia era la Cia...».

«Ha due grandi occhi azzurri, capelli biondi (molti), un naso che appartiene alla famiglia delle patatine...».
Scrivendo alla madre, rimasta a Firenze, Carlo Rosselli le annunciava così la nascita a Parigi, della nipotina che avrebbe portato il nome di lei.
Nasceva, questa bambina, in un esilio già insidiato e insicuro, dopo la fuga avventurosa di Carlo dal confino di Lipari, ma l'atmosfera di casa Rosselli era ancora addolcita dagli agi, dal gusto raffinato degli ultimi barlumi della Belle Epoque, e, soprattutto, dal fervore degli effetti: l'amore costantemente «innamorato» tra marito e moglie, Carlo e la sua compagna inglese, Marion Cave (sarebbe morta, nel 1947, in miseria, in un ospedale londinese): l'idolatria del figlio (di entrambi i figli), per la madre, quell'Amelia Pincherle Rosselli che, da sola, aveva cresciuto Aldo (morto poi a ventun’ anni nella prima guerra mondiale), Carlo e Nello, in un clima di insolita ricchezza di fermenti culturali e politici: infine, la gioia per la nascita, quella di Amelia, che seguiva di poco più di un anno, l'altra del primogenito, John, detto in famiglia il Mirtillino.

«Mia madre era molto più avventurosa di mio padre», racconta ora Amelia. «Soltanto negli ultimi tempi cominciò a fare i discorsi che di solito fanno le madri... Sognava, per me, un armadio colmo di biancheria da corredo, profumata di lavanda... Lei era figlia di un maestro laburista, venne a Firenze a fare l'istitutrice, credo, perchè i medici le avevano ordinato il clima italiano, e cominciò a frequentare il circolo Salvemini, incontrando mio padre...

«... Ma il rapporto con mia madre, negli ultimi anni, era diventato difficile... Io non amavo l'Inghilterra, dove lei si era rifugiata per curarsi, lei si preoccupava perché io avevo deciso di studiare musica, teoria, composizione... Invece la nonna non mi scoraggiò mai. Quando scrissi il mio primo saggio sul diapason, ne fu fierissima... ».

Fa una pausa, e poi: «Non credo che il ritratto della nonna, tracciato da mio cugino Aldo, nel suo libro "La famiglia Rosselli", le rassomigli davvero. Mia nonna non era quella sentimentale un po' puritana da cui, secondo Aldo, il nonno Joe sarebbe fuggito perché la severità di lei lo castrava. Lui era un musicista, ma il fatto è che non aveva avuto fortuna, nel suo campo, e invece le commedie che la nonna scriveva avevano successo... Penso che Aldo, da bambino si sia sentito come sopraffatto dalla dominante matriarcale della famiglia ed abbia sognato, si sia inventato questo nonno...».

Dei tre figli di Carlo Rosselli, Amelia è l'unica ad avere scelto di tornare in Italia. John e Andrea, i suoi fratelli, hanno tacitamente rifiutato una patria che invece per Amelia è stata una caparbia, faticosa, a volte anche allegra conquista. A partire dalla lingua. L'originario trilinguismo (francese, inglese, italiano) della bambina esule è stato tradotto sapientemente dalla poetessa [sic! gdc] in quei «veri e falsi lapsus», come li definì Pasolini, che sono uno dei fascini della sua scrittura. La mite e ferrea ed altissima pretesa di Amelia è quella di scrivere una poesia che suoni tale in tutte le lingue: come lei stessa ha spiegato in un saggio, il tentativo è di «obbedire a un'esperienza sonora logica e associativa che è certamente di tutti i popoli e reflettibile in tutte le lingue».

lunedì 6 luglio 2009

Goliarda Sapienza, la terribile arte della gioia


di Adele Cambria
«E se accadesse il miracolo? Se quando saranno pubblicate queste righe i critici che contano avessero già scoperto - il libro postumo di Goliarda Sapienza, L'arte della gioia, è uscito nelle edizioni di Stampa Alternativa in aprile - che abbiamo perduto, due anni fa, una grande scrittrice?» Scrivevo così, nel maggio del 1998, su Noi Donne. La cosa che sognavo avvenne dopo nove anni dalla morte di Goliarda. (L'avevano trovata i carabinieri, una notte d'agosto del 1996, riversa sulle scalette interne della piccola casa nella kasba di Gaeta, in cui passaval'estate). A settembre del 2005, dunque, in Germania e in Francia due ardimentose case editrici, governate da due donne- rispettivamente Waltraude Schwarze per la berlinese Aufbau-Verlag e Viviane Hamy per l'omonima casa editrice parigina - pubblicavano ed imponevano, con un tam-tam de bouche en oreille L'arte della gioia. Così l'Italia scopriva Goliarda Sapienza di rimbalzo.
E su l'Unità anch'io potevo dire la mia amara felicità e la rabbia: «Mi vengono le lacrime agli occhi nel leggere che la mia amica che non c´è più, Goliarda Sapienza, si rivela ora, come scrive Renè de Ceccaty su Le Monde, "una narratrice siciliana meravigliosa… Il romanzo è una trasvolata fenomenale della storia politica, morale e sociale dell'Italia, forse un nuovo Gattopardo, altro capolavoro che non fu letto se non dopo la morte del suo autore"».
Il Gattopardo, già. Nel 1979 Goliarda mi diede il voluminoso dattiloscritto de L'arte della gioia, dicendomi semplicemente - e sorrideva quasi scusandosi: «Sai, mi sono chiusa in casa sette anni per scriverlo, perciò non ci siamo conosciute prima, è colpa sua!» Alludeva al fatto che io, da comune lettrice del suo primo romanzo, Lettera aperta, pubblicato da Garzanti nel 1967 (per intercessione del poeta Attilio Bertolucci), le avevo scritto subito una lettera quasi d'amore: lei mi aveva risposto subito, affettuosamente, ma non ci eravamo mai incontrate. La intravedevo, ma di rado, a qualche prima dei film del suo compagno, Citto Maselli, ma mi appariva quasi segregata da quella che si definiva ancora, a quei tempi, pudicamente, una malattia dell´anima…
Lessi e rilessi tre volte le settecentottanta cartelle de L'arte della gioia. Erano una miniera, ed ogni volta che le leggevo facevo una scoperta: il libro di Goliarda era un romanzo criminale, un romanzo libertino, socialista, femminista, sessantottino, era tutto, tutto il nostro migliore Novecento! E così osai segnalare su Il Giorno, a cui collaboravo, che era nata, nel personaggio di Modesta - protagonista de L'arte della gioia - una splendida creatura siciliana di sesso femminile: «La nuova Gattoparda». Il risultato fu che, respingendo il dattiloscritto che l'autrice gli aveva spedito, per mio improvvido suggerimento, Sergio Pautasso, all´epoca responsabile del settore narrativa della Rizzoli, non trascurò di citarmi (pur senza nominarmi): esercitando su quella mia definizione un sarcasmo che ovviamente aveva per maggior bersaglio la scrittrice.
Via via che passavano i mesi le lettere dei rifiuti editoriali si moltiplicavano, e Goliarda le raccoglieva con cura, come fossero lettere d´amore. Ma intanto, senza scoraggiarci, ci mettemmo a scrivere un trattamento televisivo dell´inedito. Goliarda si affidò a me con il supporto fondamentale dell´esperienza cinematografica di Lu Leone. A noi si aggiunse il giovane Massimo Serafini, all´epoca collaboratore de Il Manifesto, non meno entusiasta di quella storia grandiosa. Dove il personaggio di Modesta era anche metafora della Sicilia, madre odiata/amata dell'autrice. Varrà la pena, a questo punto, di accennare almeno alla figura dei suoi genitori: Goliarda era l'ultima figlia di un avvocato catanese socialista, Giuseppe Sapienza, l'avvocato dei poveri… Ed i poveri, ovvero «le vittime della società», cioè le donne più disgraziate che riempivano quotidianamente l'anticamera dello studio di suo padre, in una grande casa signorile in rovina, alla Civita, (la kasba di Catania), furono l'incubo di Goliarda bambina e poi adolescente. Lo fa intuire in Lettera aperta.
Per decenni il senso di colpa verso le clienti dell´avvocato Sapienza le aveva impedito di scrivere. «Queste donne - confessa - sono entrate, si sono sedute sulle sedie, e mi guardano… Io so che cosa pensano: «Lo sapevamo che ci hai tradito, tu parli di te, del tuo disordine piccolo borghese, delle tue camicette marcite…».
E, come se non bastasse, la madre di Goliarda, Maria Giudice, (a cui il libro era dedicato), era stata una maestra elementare lombarda, ma anche una socialista militante: prima donna diventata segretaria di una Camera del Lavoro, quella di Torino, dirigeva il settimanale Il grido del popolo e dopo essere stata incarcerata insieme a Umberto Terracini, nel 1917, per aver distribuito, nei giorni di Caporetto, volantini «disfattisti» - era scesa in Sicilia a guidare le lotte contadine nell´occupazione delle terre. A Catania aveva conosciuto e sposato, (unione civile), l'avvocato Sapienza.
Quando finalmente ci incontrammo, Goliarda ed io, in pieno femminismo, le chiesi se non le sembrava paradossale che, in Lettera aperta, una come me, cresciuta in una famiglia calabrese piccolo borghese e assai cattolica, potessi aver riconosciuto, leggendo Lettera aperta, una infelicità analoga alla sua.
Com'era possibile? Lei che era stata educata da genitori socialisti antifascisti e atei! Niente Prima Comunione, niente festa e regali, e quel nome strano, Goliarda, di cui si giustificava spiegando alle amichette: «Mio padre… me lo mise perché era un nome senza santi». Non capivo le sue frustrazioni di bambina, nel sentirsi tanto diversa dalle altre. E quanto le avevo invidiato quei genitori rivoluzionari, e il cinema di Jean Gabin, a volontà, nel cinematografo di Civita, e le crispelle di mezzanotte insieme al padre, dopo il cinema, o il Teatro dell´Opera, o l'Opera dei Pupi. (Tutto questo lo scoprii leggendo, più tardi, anche il suo racconto incompiuto e bellissimo, intitolato Io, Jean Gabin).
Il trattamento de L'arte della gioia, finalmente, fu scritto. Lo portammo con trepidazione - Lu Leone ed io - a Vittorio Bonicelli, nostro interlocutore in viale Mazzini. Ci richiamò dopo averlo letto. Entrammo nel suo ufficio, Bonicelli, un intellettuale disincantato ma non opportunista, sollevò gli occhiali sulla fronte e ci ammonì: «Noi sopravviviamo, carissime, nelle pieghe della distrazione del potere». Pausa, poi la domanda: «Ma che volete? Far saltare la Rai?»
Torniamo al giorno in cui al Teatro La Maddalena, Goliarda mi consegnò il dattiloscritto. «Ho voluto - mi disse - tentare la scommessa di una narrativa popolare di sinistra».
Mi immersi in quelle pagine schioccanti e rutilanti, inseguendo una scrittura colorata e travolgente che «respira» davvero come il mare: quel mare che la diseredata bambina della Chiana del Bove conosce soltanto dalle parole di Tuzzu: Il mare è una chiana blu - le racconta il ragazzo - ma senza le montagne di lava che noi vediamo là in fondo… È tutta una chiana d'acqua blu che va a finire al cielo… «Una chiana d´acqua blu come i tuoi occhi…», osa la bambina al ragazzo che sta fumando la sua prima sigaretta.
Ma soprattutto, di pagina in pagina, percepivo la compattezza ideologica dell'Autrice. Goliarda, non era affatto «ideologica»: anzi accusava l'ideologia di averle rovinato la vita. Ma aveva idee «straniere» su tutto.
E deve essere stata questa, suppongo, la ragione per cui i responsabili delle più grandi case editrici si ritraevano con terrore dalle pagine de L'arte della gioia. Dove fioriva e crepitava una Sicilia magnifica come una Dea, e s'affollavano personaggi, animali, paesaggi, e scorrevano vicende storiche nell´arco, quasi, dell´intero Novecento. Modesta, la protagonista, nasce infatti il primo gennaio del 1900 e il romanzo l'accompagna fin oltre il '68. Attraverso il suo corpo e la sua mente, passano sette decenni, storie di feudi e conventi, di principi e campieri, la Grande Guerra e l'epidemia di «spagnola», le lotte e le speranze del socialismo e l'avvento del fascismo… Ma dovunque l'autrice sparge il sale intollerabile della sua sapienza eversiva, e come poteva immaginarsi - continuo a chiedermelo - di scrivere un romanzo popolare senza «buoni sentimenti»? Sono tre i delitti, forse più fantasticati che realizzati, che aprono alla bambina della Chiana del Bove, e poi all´adolescente e alla giovane donna, le porte della conoscenza, della ricchezza, e finalmente del potere aristocratico. Ma subito Modesta cerca scampo nella chimera del socialismo. Che la disillude. «Fra i tuoi compagni - dice al giovane medico socialista umanitario di cui si è innamorata - ho trovato soltanto una malcelata aspirazione alla santità… O la ferocia del dogma… per nascondere la fluidità della vita».
Una vita che fluisce con una forza regale nelle vene di Modesta (e di Goliarda) fino alle ultime pagine del libro, e - voglio fare un atto di fede - anche (prego) negli ultimi sconosciuti attimi dell´esistenza dell'autrice.
La difficile, terribile «arte della gioia», Goliarda riesce comunque ad insegnarcela fino all'ultimo respiro, raccontandoci l´amore pieno e caldo di Modesta, alla svolta dei suoi settanta, con un coetaneo: «Questa gioia piena dell´eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d'essere compagni nel dilatarlo, vivendo il più intensamente possibile prima che scatti l'ora dell'ultima avventura».
L'Unità, 26 settembre 2006.

da Pellicanolibri Beppe Costa, Goliarda Sapienza, Adele Cambria e Citto Maselli