Foto di Manuela Fabbri

domenica 29 novembre 2009

Adele Cambria --- Il giallo di Lotta Continua «made in Usa»

da "il Giornale" lunedì 23 novembre 2009

di Antonio Selvatici

Torna l’attenzione sul terrorismo degli anni Settanta: su quegli anni, «formidabili» per qualcuno, ma in realtà tragici, ancora oggi, vi sono degli aspetti non ancora chiari. O meglio, su cui probabilmente si è preferito non indagare a fondo. Riguardo Lotta Continua movimento politico vi è ancora una questione in sospeso che fino a oggi non ha avuto soddisfacente risposta. Perché il quotidiano Lotta Continuaveniva stampato da una tipografia gestita da americani? Perché il movimento estremista, comunista, movimentista ed extraparlamentare che era contro la borghesia, contro le multinazionali e contro l’America imperialista usava una tipografia «made in Usa»?
Cosa c’entrano gli americani con il foglio Lotta Continua? Cosa c’entra l’intelligence statunitense con il noto quotidiano dove professionalmente si sono formati molti brillanti giornalisti? La stessa domanda la posi ad Adriano Sofri quando andai a intervistarlo. Mi mandò a quel paese. Attendo ancora una risposta. La questione è nota a pochi. Per ricostruirla occorre andare in Camera di commercio e chiedere la stampa delle visure societarie. Quindi legare gli sterili dati camerali agli avvenimenti del periodo. L’intera vicenda si svolge a cavallo degli anni Settanta quando «i berlingueriani non avevano più nulla da offrire alla classe operaia», di conseguenza non rimaneva che volgere lo sguardo sempre più a sinistra. Oltre il Pci. Per diffondere l’ideologia estremista in contrasto con quella più moderata e «ufficiale» di Botteghe Oscure, a partire dal 1969 vennero costituiti alcuni fogli «di lotta».
Tra i tanti, alcuni ebbero fortuna, altri, chiusero dopo pochi numeri.Lotta Continua inizialmente uscì a cadenza quindicinale, poi divenne un quotidiano. I militanti appresero la notizia della trasformazione del loro foglio di riferimento in quotidiano nell’agosto del ’71 nel corso di un affollato convegno che si tenne a Bologna. Come promesso (direttore Adele Cambria) l’11 aprile ’72 uscì il numero uno di Lotta Continua quotidiano (registrazione del Tribunale di Roma 14.442 del 13 marzo ’72). Aggressivo il titolo d’apertura della prima pagina: «Così i padroni della Dc si preparano alla guerra civile contro i proletari». Una nota importante: bisogna sapere che quasi sempre la società che «produce» un quotidiano non è la stessa che fisicamente lo stampa. Una cosa è l’editore, i giornalisti che scrivono, altra lo stampatore. La redazione del quotidiano militante si trovava a Roma in via Dandolo al civico 10. Anche la stampa si faceva nello stesso edificio: incaricata era la società Art Press. Una società a responsabilità limitata con oggetto sociale «l'esercizio dell'attività tipografica ed editoriale». L'Art Press venne costituita a Roma il 1° dicembre ’71, pochi mesi dopo l’annuncio fatto durante il convegno di Bologna. A sorpresa nella compagine societaria troviamo degli americani. Amministratore della piccola stamperia risulta essere Robert Cunnigham junior, nato nello Stato dell’Ohio. Nella stessa strada vi era la Dapco che stampava Daily American, il giornale degli americani a Roma, ancora una volta, amministratore era un Cunningham. Alla fine del ’75 il quotidiano Lotta Continua si trasferì in via dei Magazzini Generali al civico 32/a (direttore Enrico Deaglio). Cambiò sede e cambiò stampatore: questa volta i fogli scorrevano tra i rulli della Tipografia «15 Giugno» con sede nella stessa via, ma all’attiguo civico 30. Tra i soci della nuova tipografia, con una quota minoritaria, vi era anche il solito Robert Cunningham junior (insieme, tra l’altro, a Marco Boato).
Non distante dalla Tipografia «15 Giugno» si trovava la società per azioni Rome Daily American che stampava in lingua inglese il quotidiano degli americani che vivevano in Italia. Per ribadire la liaison tra la via Dandolo e i legittimi interessi statunitensi, va segnalato che a partire dal dicembre 1982 allo stesso indirizzo dove si stampava Lotta Continua si insediò la società Am.P.Co. Srl, American Publishing Company, società a responsabilità limitata. E nuovamente troviamo Robert Cunnigham junior a ricoprire la carica di amministratore unico. Naturalmente avere ricoperto cariche societarie in società che stampavano il famoso quotidiano Lotta Continua non costituisce reato: ognuno è libero di spendere o investire soldi o tempo come meglio crede. Non mi meraviglia se uno o più membri della famiglia Cunningham abbiano amministrato o abbiano ricoperti altri incarichi in un’azienda che stampava il quotidiano Lotta Continua. Ciò che fa alzare il sopracciglio è la posizione della dirigenza, o di chi sapeva, in Lotta Continua. Come faceva il movimento extraparlamentare di sinistra a conciliare una politica apertamente anti-americana quando i soci della stamperia venivano da Oltreoceano?

giovedì 19 novembre 2009

Dialogo tra Adele Cambria e Antonio Gramsci


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Info documento:

Title:

“Non ci sono risposte compagno Gramsci... non ancora alle tue domande.”

Soggettività e differenza sessuale: un dialogo tra Adele Cambria e Antonio Gramsci

Journal Issue:

Carte Italiane, 2(4)

Author:

Righi, Andrea

Publication Date:

01-01-2008

Publication Info:

UC Los Angeles, Carte Italiane, Department of Italian, UCLA

domenica 6 settembre 2009

Adele Cambria --- Per Nemesi

Tratto da Manifesta n°1 luglio 2002

Portavano corone di gelsomino intrecciate sui lunghi capelli, biondi, fulvi, bruni e clamidi di velo trasparente e fiorito sui corpi aggraziati e giovani. Nonostante il nome mitico minaccioso che si erano date, “Le Nemesiache”, nulla era più innocente della loro provocazione: rievocare, a partire dall’immagine, il tiaso dell’antica Grecia, dove sublimi maestre, come Saffo, insegnavano alle giovinette musica, poesia,amore, prima di quel matrimonio che le avrebbe relegate nei ginecei. L’animatrice, l’ispiratrice, la filosofa, di quel collettivo femminista napoletano, nato in anticipo, nello scorcio finale degli Anni Sessanta, e che aveva eletto la bellezza come canone assoluto dell’esistenza, era lei: Lina (Il suo cognome era buffo, Mangiacapre, ma Lina lo portava con disinvolta eleganza). Ora che lei non c’è più, sono le sue immagini, le immagini, le visioni, che soltanto lei era capace di suscitare- e non sarebbe inesatto osservare che Lina-Nemesi ha firmato giorno per giorno la sua vita, e non soltanto la sua, come “opera d’artista”- sono quelle immagini di bellezza, di poesia, (di incubo o tragedia a volte), ad affollarsi per prime alla mente. In un tempo che ha “abiurato” la Bellezza, Lina ostinatamente la perseguiva: nel quotidiano e, fino alla radice del quotidiano, con una coerenza ineluttabile: lei produceva il Pensiero della Bellezza, e contemporaneamente, e disperatamente, disperatamente sola, (alla fine precoce e inaccettabile dei suoi giorni), lo praticava. Perciò, io credo, Lina allarmava, diffondeva allarme anche tra le donne “emancipate”, o, meglio ancora, femministe. Sottolineo l’avverbio”meglio”: è quello che voglio usare qui, non il suo contrario, “peggio”: che pure sarebbe tanto facile gettare in mezzo a questo discorso, inabissandolo nella volgarità. Perché ovviamente il femminismo non sarà mai, non per me, almeno, fino a quando vivrò, una cosa che può essere definita con l’avverbio “peggio”. E non lo sarà anche perché ho conosciuto, ho frequentato, ho amato, ho temuto, ho fuggito, (anche, talvolta), proprio lei, Lina. E Lina “ci” allarmava. Voglio precisare: allarmava noi (e forse assai più di quanto non spaventasse gli uomini, in realtà sempre morbosamente attratti dal sua sensualità proibita). Lina allarmava le donne, anche noi femministe, con quella sua immagine seduttiva e ironicamente “doppia”- maschio, femmina, androgino - a partire dai suoi abiti tutti inventati, e che, per decenni, hanno precorso la Moda: le tuniche, i pepli trasparenti, nella sua stagione “prima”, e poi il dark, il punk, i metallari, cioè il nero cupo, definitivo, siglato dal minaccioso acciaio di inquietanti fibbie, alamari, cinture, stivali. Il popolo della notte, le creature vaganti in folla dentro quegli enormi garages attossicati da fumi, da vapori chimici verdastri violetti, e rimbombanti di suoni insostenibili, quei luoghi che chiamano discoteche (e scusate la mia ripugnanza, senza dubbio generazionale), Lina li aveva partoriti dalla sua mente profetica assai prima che le mode ce li imponessero, precipitando sopra di noi dagli States o da Liverpool, Londra etc. Tra l’altro, l’avversione, l’ostilità sua “naturale”- ed era lei stessa a definirla “naturale” - per la lingua inglese, basterebbe ad escludere ogni sospetto di una impossibile impensabile “copiatura”. Quante volte, del resto, mi faceva “cadere le braccia”, replicando, ai miei suggerimenti di formichina saggia - tipo “Non sarebbe meglio che andassi qualche tempo sui set cinematografici, come aiuto, per imparare la tecnica, prima di girare un film tutto tuo?” - con una frase definitiva, pur nella sua “divina” dolcezza (la pronuncia, il tono, il sorriso, quella voce rauca e sussurrata, tutto era dolce e tragico, in lei.): ”Vedi Adele -mi diceva- io non posso imparare nulla, tutto quello che so, tutto quello che so fare, lo sapevo già nascendo”, “Ma ti sei pur laureata in Lettere e Filosofia col massimo dei voti e la lode!”, le opponevo (le prime volte), esasperata nella mia logica pignola e, chissà, “impiegatizia”. La verità era che la normalità, la medietà, era improponibile ad una creatura come Lina. Così com’era insostenibile un rapporto medio, normale, costante, con un essere “dell’altro mondo” com’era lei: i primi anni in cui la frequentavo - lei e le altre, le “divine fanciulle” del suo tiaso (Niobe, Elena, Dafne.) - dopo otto giorni di avido apprendimento e “pascolo celeste” in quell’universo di piaceri – ondeggiare di veli su corpi efebici, musiche e danze soavi, nutrimenti perfino divini (i cannoli di ricotta, le cassate napoletane), e la vista sul mare di Posillipo, dalla sua casa-altana - fuggivo per ritrovarmi davanti a un serial televisivo. Non so se ho reso l’idea (rozzamente, volgarmente, certo.). Il fatto è che la banalità fa parte dell’umano (credo.), ma Lina, per miracolo o tragedia, non poteva, non sapeva essere banale. Le mancava il gene della banalità. Ma non basta, me ne rendo conto, pur se mi dà una grande consolazione, “citare” le immagini di cui il suo passaggio su questa terra ci ha colmato (e lasciatemi usare, per lei, le parole giuste di una religiosità che non ha nomi o gerarchie). Per me, personalmente, i regali cominciarono dalla sua psicofavola, la prima, “Cenerella”, che vidi a Napoli nel remoto 1971: e poi si incastonò, dentro la riscoperta del Mito al femminile (che Lina ha donato, mai riconosciuta, a tutto il Movimento), come un anello d’oro che ci ha legato entrambe in una sorta di “nozze intellettuali” (mille volte fui tentata di rinnegarle e qualche volta, forse, le ho rinnegate.), la sequenza del Topo, della Serpe, e della vecchia Palma quasi centenaria. Accadde in una ardente estate calabrese, nel giardino d’agrumi di mia madre, (vigile e calma presenza femminile sapiente, quella di mia madre: che Lina adorava, divertiva e mi aiutava a capire. E rabbrividisco pensando che se ne andata appena pochi mesi dopo di lei). Noi due scrivevamo, all’ombra della palma che mio nonno aveva piantato per celebrare la nascita della figlia, la sceneggiatura del film ispirato al mio romanzo, “Dopo Didone”. Il film , cui Lina volle dare il titolo di “Didone non è morta” (un titolo che in questo momento non può non sembrarci augurale.), ripropone la storia di Didone ed Enea, raccontata in versi amorosi sublimi da Virgilio, come il conflitto lacerante di una donna “di potere” (per dirla con l’orrenda e spero già scaduta terminologia degli Anni Ottanta), divisa tra la passione per un uomo e la libertà e la responsabilità femminile verso gli altri, intesi come comunità anche politica. Didone si uccide, perché non potrebbe mai seguire Enea come una moglie, lei regina e condottiera del suo popolo (“E adesso che cosa farò? Seguirò la flotta dei Troiani, starò ai loro comandi?”): e, d’altra parte, Enea, il “pio Enea”, ha tentato di salpare furtivamente come un ladro, dal porto di Cartagine, verso il suo nuovo “destino di gloria” (la fondazione di Roma), e alla giusta furia della regina -“Lo presi morto di fame, gettato sul mio lido dalla tempesta, lo misi a parte del mio regno, pazza!”- risponde (prototipo del maschio in fuga, nei secoli dei secoli.): ”Io mai ti tenni discorsi di nozze, o pensai di sposarti”. Ecco, mentre scriviamo questa scena, un gran frastuono animale agita l’immoto paesaggio affogato nella calura (le tre del pomeriggio): e balza dal fogliame (al tronco della vecchia palma si aggrappava un folto cespuglio di gelsomino) un grande topo di campagna, inseguito dal sibilo di una serpe, che si snoda nell’aria disegnando per un istante, nero-verde e lucente nel chiarore meridiano, il segno del suo corpo, una lucida S, e poi sparisce all’inseguimento della preda. Paura, risate, mia madre che smorza l’eccitazione con la sua antica conoscenza dei luoghi, e degli “abitatori” dell’agrumeto: ”Non è una serpe, è una biscia”, sorride ironica. Ma per Lina, e alla fine anche per me, resterà sempre quella visione (che molto, ci penso ora, sarebbe piaciuta allo psicoanalista junghiano James Hillman), una “figura” simbolica della Regina furente ed offesa, che insegue il vile topo di campagna atterrito, il “pio Enea” Dicevo: non bastano le immagini, le illuminazioni, i ricordi, pure vivissimi come i miei, a dire l’essenza di Lina. Servono i suoi scritti, e, tra i suoi scritti, due, fondamentali, il “Faust-Fausta”, e la “Pentesilea”. (Su questa sua seconda opera, ho ritrovato una mia lettera abbastanza chiaroveggente, purtroppo, scritta per la presentazione del libro a Napoli, nel 1998, e che Manifesta pubblica a parte). “Faust-Fausta”: dal “romanzo filosofico”(come recita il sottotitolo del libro), Lina trasse in seguito un film, proiettato - come del resto era stato anche per “Didone non è morta” - alla Sorbona di Parigi: il suo “Faust” cinematografico fu poi invitato a Villa Medici, a Roma, nell’ambito del festival dedicato all’opera maggiore, “opera titanica” è stata definita, di Wolfang Goethe. Ma è il libro di Lina che qui mi interessa. Pubblicato da una casa editrice fiorentina nel 1990, soltanto ora, forse, ad una rilettura tragicamente “in assenza di Lei”, mi sembra di poterne penetrare il senso: è in queste pagine, quasi urlerei (in un inutile urlo tardivo), che l’Autrice ci consegna la chiave della sua esistenza. Ed a me, che rimpiangevo (per il mio imperdonabile “vizio” estetizzante), la sua prima stagione di pepli, veli, danze e corone e collane di gelsomini, Lina-Nemesi-Faust-Fausta fornisce la spiegazione di quel suo passaggio al nero, al cupo, al funebre, al “lutto di Elettra”. Così: ”Faust inizia il suo cammino maledetto; perde la melodia della voce; i suoi capelli teneri e ricchi d’oro diventano opachi; davanti agli occhi una sola strada. Il cupo e il nero tingono, unico colore,interno ed esterno” Perché la protagonista del romanzo, Fausta, ha chiesto “a Satana, in cambio della sua anima, di diventare uomo, di vivere il suo maschile, senza più i limiti di questa androginia che le impedisce una vera identità e poi la libertà”. E quando fa questa scelta, quando chiede di poter diventare Faust, Fausta ha già sperimentato la delusione dell’intelligenza oppure l’effimero della passione femminile (“Come uomo non ama di più gli uomini né desidera ormai le donne che disprezza”). Ma il dissidio originario della protagonista - un dissidio corpo-anima, cielo-terra, che la segna dalla nascita - consiste nel suo rifiuto di accettare, di riconoscere l’appartenenza ad una specie biologica, quella umana (che è anche, fatalmente, inguaribilmente “animale”): e di cui ha ribrezzo. “Vestivo di bianco con i capelli biondi e diafani, suonavo il violino confondendomi con gli angeli. Gli angeli non hanno sesso e certamente, poi, non hanno un corpo di donna. Ma il destino, mia madre, mi aveva dato un corpo, due gambe e dovevo camminare sulla sporca terra e mangiare.” Il rifiuto del corpo (ma lei diceva, scriveva, anche, soprattutto della mente, di quella mente che per esistere ha bisogno del corpo.) “Fausta ricordava tutte le sue rivolte: non voleva mangiare, non voleva essere mortale, fare i bisogni, non voleva camminare” E ancora: ”Dovevo fare presto, prima di diventare donna; dovevo andarmene con il mio corpo leggero, prima del rosso, del segno del sangue.” E c’era, fatale, nella pietra di fondazione del suo essere, oscura e luminosa come un diamante nero, il rifiuto analogamente estremo di una identità sessuale definita, etichettata: ”Non sono eterosessuale, non accetto lo schema di lasciarmi penetrare, essere madre di un uomo. Desiderare di fare entrare in me un altro corpo. Non desidero che qualcuno entri nel mio corpo, io sono compiuta, io desidero uscire, volare, raggiungere il cosmo.” E ancora: ”Non sono omosessuale perché io amo dell’altra ciò che non esprime, e che è al fondo delle infinite mie immagini, il femminile come desiderio, la bellezza, la tenerezza, un amore impossibile finché la nostra lotta non avrà ripreso il volto del femminile al di là della violenza e della durezza.” La soluzione avrebbe potuto essere, per Fausta-Faust-Nemesi-Lina, l’androginia psichica (spirituale, sacrale, fisica), come arricchimento e raddoppio della vitalità, delle possibilità, delle energie? Un’androginia positiva, accettata anche socialmente, culturalmente, come valore. E’ quello che sta tentando Pedro Almodovar. Ma, lui, è stato iscritto all’anagrafe con un nome maschile. Ed ha certamente quel gene della banalità, che a Lina mancava. Perdonaci, Lina.
Adele Cambria

sabato 15 agosto 2009

Adele Cambria --- Presentazione di “Pentesilea” di Lina Mangiacapre, 21 marzo 1998, Napoli

Mi hai aggredita con la tua storia, così crudelmente intrisa del mito, delle passioni, della amore e della morte della Regina delle Amazzoni, Pentesilea. Intrisa, ma non mascherata. Parlando di lei, scrivendo di lei, hai infatti parlato e scritto di te e di noi, che ti siamo tutte, in un modo o nell’altro, “mancate”. Noi del “femminismo storico”, noi affascinate da te nel remoto 1971(era quello l’anno in cui ti ho visto a Napoli inventare-rappresentare la psicofavola di “Cinderella”?), noi che, in un modo o nell’altro, rischiavamo tutte di essere prese nel tuo sortilegio, e non parlo soltanto delle ragazze del tuo “tiaso” saffico, che tu abbellivi di nomi mitici, Dafne, Niobe, Elena e di chiome ondeggianti e pepli e collane di gelsomini profumatissimi, e soprattutto di “anima” (a molte di loro però, riconoscilo, Lina, non essere impietosa prima di tutto con te stessa, a molte l’anima che tu hai evocato da profondità fino a quel momento forse incoscienti, è rimasta, come dire, felicemente avvinta). No, non parlo di loro soltanto, parlo di me: giornalista in qualche misura già “nota”, all’epoca, donna ferita dall’emancipazione degli anni sessanta, irresistibilmente attratta dalla sfida che tu rappresentavi, e disposta a difenderla, facciamo una bella frase, “davanti al mondo intero” (quante volte mi sono sentita dire, nel movimento ma anche nella società letteraria romana, “ma come, ma perché, ma Lina, ma perché si veste in quel modo, ma tu sei una persona seria.”), eppure: anch’io volevo sottrarmi, scampare al sortilegio, soffrivo - te l’ho confessato più volte - di quella abissale “assenza di mediocrità” nella vita quotidiana che è il tuo marchio. Non sei sostenibile, Lina. Confessato questo sentimento di impotenza (insufficienza), lascio che Pentesilea-Lina-Nemesi irrompa attraverso le onde del tuo libro, consacrato alla Regina delle Amazzoni (ed a te, ed alla nostra storia di donne degli ultimi trent’anni circa), fino alle soglie della mia percezione letteraria: credo che questo, Lina, sia il tuo testo più compiuto, la tua scrittura più “legittima”, e che ti legittima, a mio avviso (ma non sono un critico) sulla scena letteraria e non soltanto italiana. Fin dal bellissimo incipit - “La pianura è disseminata di cadaveri di donne, pezzi di corazze brandelli di carne.” - che subito plana, dopo poche righe che mi ricordano il Flaubert di “Salambò” (l’abbiamo scoperto e amato insieme tanto tempo fa), verso il primo piano di te,Pentesilea-Lina-Nemesi, più che affacciata, proiettata verso il mare di Posillipo da quel sublime balcone che abiti (quando il tuo dolorante nomadismo te lo consente. Da quando è morto tuo padre, tu non viaggi più come facevi, trasognata e, devo dirlo, felice, in quella lunga interminabile stagione dell’adolescenza che la sua intelligente devozione ti assicurava, tu, da quella morte, erri). E subentra la tenera memoria infantile di quando volevi giocare con lui nel gran letto, ma lui ,troppo rispettoso dei ruoli, ti cedeva ad altri (immagino un medico), perché impietosamente manipolasse il tuo corpicino per guarirti di una malattia che, fin dai tuoi primi anni di vita, aveva un solo nome: intolleranza della “normalità” che per l’appunto uccideUccide le persone come te, voglio dire, ma la tua fortuna (per noi) e, forse, la tua condanna (per te), è che la tua rabbia non si spegne, così come la tua volontà di bellezza arde e divampa e continua, continuerà ad abbagliarci fin quando avremo occhi (purtroppo mortali). Per queste ed altre cose ancora - potrei commentare la tua “Pentesilea” riga per riga, stupende le parole di amore e poi di rabbia per Elena - noi ti diciamo grazie. Sì, anche noi che ti siamo “mancate”. Adele Cambria 14 luglio 1998

giovedì 13 agosto 2009

Adele Cambria --- Orestea, una trilogia. Pasolini tra psiche e ragione

di Adele Cambria
tratto da "Filosofia & Religione", "I quaderni di InStoria N° 2"

I miei tempi non ci si muoveva agevolmente nelle terre del Sud, e ben volentieri si
fuggiva verso il Nord, che per la mia famiglia cominciava subito dopo Napoli... Ma è con piacere che ricordo il viaggio fatto con la II D del Liceo Classico Tommaso Campanella di Reggio Calabria, in direzione Sud: destinazione, il Teatro greco di Siracusa, per vedere e ascoltare l'Orestea di Eschilo.
Quell'esperienza fu quel che, più tardi, avrei riconosciuto come un'iniziazione alla tragedia greca, nella quale ancora oggi (mezzo secolo dopo) continuo a sentire l'essenza stessa del teatro.
Perché, mi chiedo, la dimensione narrativa (oltre che poetica) della tragedia ha saputo strutturarel'inconscio duemila anni prima dell'arrivo di Freud e di Jung?
Che cosa sono gli Dei e le Dee dell'Olimpo, se non l'incarnazione psichica dei nostri vizi e delle nostre virtù?

sabato 8 agosto 2009

Adele Cambria... Un po' di fatti

Il Giorno del 31 luglio 1988 Lotta Continua e La CIA di M. Nozza

Nell'articolo pubblicato ieri dal "Giorno", col titolo suggestivo "caro direttore, io c'ero", articolo molto bello soprattutto perché molto sincero, e coraggioso, Adele Cambria ha raccontato come accade che, all'indomani dell'omicidio Calabresi, dovette subire un processo per "apologia di reato e istigazione a delinquere", dato che il suo nome figurava alla "direzione responsabile" del quotidiano fondato da Adriano Sofri. Come tanti altri giornalisti che si succedettero a quella direzione, anche la Cambria aveva prestato il proprio nome perché la legge di allora, anacronistica, impediva ai non giornalisti di firmare un quotidiano. "Non condividevo minimamente quelle parole" (e cioè i commenti sulla morte di Calabresi). "La mia firma era un tributo alla garanzia di libertà d'espressione". "Fui, insieme a due militanti che avevano venduto, quel 18 maggio 1972, le copie incriminate del quotidiano "Lotta continua" - così racconta la Cambria -, l'unica a essere processata, e per direttissima, a causa dell'omicidio Calabresi". Per la storia, altri quattro imputati aderenti a Lc furono processati a Torino, proprio il giorno del processo alla Cambria. E quelli si beccarono un anno e quattro mesi di reclusione, senza la condizionale. Nel quartetto c'era anche Andrea Casalegno, figlio del giornalista della "Stampa" di Torino, Carlo Casalegno, che cinque anni dopo, il 16 novembre 1977, sarebbe stato vilmente assassinato sotto casa dalle Brigate rosse. Ma l'aspetto che più colpisce, nel racconto di Adele Cambria, è la descrizione che fa degli intellettuali di Lc che frequentavano la redazione romana di via Dandolo. "Sbagliati o giusti che fossero i loro ideali, li pagavano di persona". "Vivevano davvero in povertà, nonostante fossero tutti abbastanza brillanti per inserirsi a pieno titolo nell'aborrito "sistema" (e alcuni, dopo, lo hanno fatto), e non era infrequente, da parte loro, la cessione all'organizzazione della proprietà della casa ereditata dalla famiglia…". "Insomma, quello che poi, studiando i sacri testi del marxismo-leninismo, io stessa avrei definito l'"ascetismo rosso stalinista", dominava l'ambiente: sia a Napoli (dove poi il quotidiano non si fece), sia a Roma nella redazione di via Dandolo, pieno di sedie, spagliate e con un unico, veneratissimo "operaio", che veniva custodito (sarò un po' cattiva…) quale reliquia…". E con via Dandolo, finalmente, siamo arrivati al punto. L'Adele Cambria alla direzione di "Lotta continua" ci resistette per brevissimo tempo. Altri, per periodi più lunghi. E come mai nessuno, proprio nessuno, dei tantissimi direttori che si susseguirono alla guida di quel giornale, fu pungolato dalla curiosità di sapere di chi era la tipografia che stampava "Lotta continua", la "Tipografia Art-Press", che si trovava nei locali della stessa redazione in via Dandolo al numero 10? La storia nasconde aspetti davvero molto strani. Perché? Ma perché, al medesimo indirizzo, esisteva la Dapco. E la Dapco era l'editrice del "Daily American", il giornale degli americani di Roma. Risultava di proprietà di una società il cui amministratore unico era un americano degli Stati Uniti, tale Robert Hugh Cunningham. Chi era costui? Nato a Lovelville, nell'Ohio, il 10 gennaio 1920, Robert Hugh Cunningham era un collaboratore eminente di Richard Helm, quando Richard Helm era capo della Cia. Chi lo dice? Lo dice (e lo scrive) Victor Marchetti, nel libro "Culto e mistica del servizio segreto", edito in Italia da Garzanti. Qualcuno, a questo punto, obietterà: il pubblicare il "Daily American" non potrebbe essere una pura attività collaterale, privata, del signor Robert Hugh Cunningham? Ci sono però alcuni problemi che complicano la faccenda. Eccone uno: appena arrivato a Roma, e cioè nel '68, questo signor Cunningham aveva come socio un vecchio americano ultrasettuagenario, tale Samuel Meek, che aveva amministrato il "Daily American" dal 1964 e agiva, anche lui, per la Cia. Sia pure solo come fiduciario, non come vero e proprio agente. L'agente vero era Robert Hugh Cunningham. Tutto qua? Obietterà qualcuno che un conto è la Dapco e un conto è la Art-Press, la tipografia che stampava "Lotta continua". Difatti: la società Dapco si costituì, sempre a Roma, il giorno 1 dicembre 1971, con atto a rogito presso il notaio Domenico Zecca. Due cose diverse? Pare di no, invece. Perché i soci della Art-Press risultano tre: Cunningham padre, madre e figlio. Amministratore della Dapco: Cunningham senior. Amministratore della Art-Press: Cunningham junior. Che si chiama come il padre: Robert Hugh Cunningham.
Si dirà: un conto è il padre, un conto è il figlio. Ci sono tanti figli che sono dissimili dal proprio padre, completamente diversi, contrapposti. Vedremo, più avanti, che non è così. Nel '71, intanto, avviene un'altra cosa strana, stranissima. Presso la cancelleria delle società commerciali, esistente nel tribunale civile e penale di Roma, due signori presentano un documento dal quale risulta che accettano di diventare "amministratori della Spa Rome Daily American con deliberazione dell'assemblea ordinaria del 27 settembre 1971". Come si chiamano questi due signori? Uno si chiama Matteo Macciocco, nato a Olbia (Sassari) il 1 aprile 1929, domiciliato a Milano in via Turati 29. Il secondo si chiama Michele Sindona, avvocato, nato a Patti (Messina) l'8 maggio 1920, domiciliato a Milano in via Visconti di Modrone 30. Entrambi dichiarano che a loro carico non esiste alcuna delle cause di ineleggibilità e, precisamente, di non essere interdetti, inabilitati, falliti, né condannati a una pena che comporti l'interdizione dai pubblici uffici e l'incapacità di esercitare… Nel '71, dunque, Sindona succede a Cunningham, Cunningham senior, nella gestione del "Daily American". Giornale che fallisce, subito dopo il fallimento di Sindona. E a sostituire il "Daily American", ecco che compare, a Roma, un altro quotidiano per cittadini Usa in Italia. Si chiama "Daily News". I suoi proprietari? Robert Hugh Cunningham senior e Robert Hugh Cunningham junior. Toh! Forse questa è un'altra storia. E però, proprio mentre fallisce il "Daily American", succede che "Lotta continua" cambia tipografia, non si lascia più stampare dalla Art-Press. È nata infatti una nuova società, che si è fissata la durata "fino al 31 dicembre 2010". Nome: "Tipografia 15 giugno". Soci: Angelo Brambilla Pisoni, Pio Baldelli, Marco Boato, Lionello Massobrio. Tutti quelli che si presentano davanti al notaio di Roma, che stavolta è Franco Galiani, si dichiarano cittadini italiani. L'ultimo della fila, no. Questo è un cittadino statunitense. Si chiama? Si chiama Robert Hugh Cunningham junior. Sempre lui. Il figlio, ormai ha preso il posto del padre. E si muove meglio del padre, perché non soltanto si dà da fare (molto bene) con quelli di "Lotta continua", ma tiene sotto controllo (sotto controllo?) anche le frange accalorate di "Autonomia",di cui divulga (su giornali e riviste) le idee più eversive, più deleterie. Verso gli anni Ottanta, prende a languire lo slancio di "Lotta continua". Il giornale si spegne proprio mentre, negli Stati Uniti, appare la stella nuova, quella di Reagan. A questo punto, da parte di Cunningham junior non c'è nemmeno più la preoccupazione di nascondere quello che, effettivamente, rappresenta. E Reagan, appena eletto presidente degli Stati Uniti, lo nomina responsabile del partito repubblicano in Europa. Per che cosa? Per l'informazione. Robert Hugh Cunningham diventa l'uomo più reazionario dell'équipe di Washington. Rambo tra i Rambo. Ed è ancora un giovanotto: ha appena superato i quaranta. Come i suoi coetanei di "Lotta continua", del resto. I quali adesso - con l'affare Calabresi - sono nelle grane. Alcuni, almeno. Ma lo sapevano, quegli sprovveduti, con chi avevano a che fare?

martedì 28 luglio 2009

Adele Cambria -- Femminismo...

E' un gesto “femminista” mostrare la propria moglie mentre fa il bidet o siede sul water-closet? E’ quanto sostiene Domenico Colantoni, un pittore senza dubbio interessante che, dopo una serie di quadri sul tema della coppia (o meglio della sua distruzione), ha scelto oggi la macchina da presa per continuare ad esprimersi: e la protagonista di uno dei film, dal titolo idilliaco, <<et joie sont ma vie>> è sua moglie Ornella una fiammeggiante femme revoltée – di cui il marito insegue e filma, implacabilmente, il risveglio, in una giornata qualsiasi.
Un’ennesima deformazione, allora, dello slogan femminista: il personale è politico… Oggi si pretende (ma, non a caso, da un maschio) che il WC. È politico; ma è, per l’ennesima volta, una donna, anzi addirittura la donna per eccellenza, come oggetto di possesso e di uso. E cioè la moglie, la propria moglie, a subire anche questa violenza.

Adele Cambria “IL GIORNO”

Adele Cambria - Freud non è più un lusso

IL GIORNO - Venerdì 20 gennaio 1978 - di Adele Cambria


La psicoanalisi da privilegio per pochi ad attività terapeutica di gruppo
Freud non è più lusso

I giovani della nuova sinistra, in rottura con la psichiatria tradizionale, si riuniscono sempre più numerosi a Roma intorno a un transfuga della Società Psicoanalitica Italiana, il professor Massimo Fagioli - L'analisi non si fa più individualmente, è una ricerca collettiva degli equilibri perduti - Terapia scientifica o psicodramma? - Parla il promotore del nuovo movimento

"Si potrebbe dire - scriveva Gramsci nei "Quaderni del carcere" - che l'inconscio incomincia solo dopo tante decine di migliaia di lire di rendita". Insomma, per Gramsci l'inconscio ce l'avevano i ricchi, i poveri no. Problemi di lusso, quindi, i problemi dell'inconscio, e già Lenin del resto nelle sue conversazioni con Clara Zetkin (1921), s'era riferito alla psicoanalisi come a qualcosa che "fiorisce con esuberanza sul terriccio della società borghese".
Dopo sessant'anni, oggi nessuno potrebbe sostenere quelle tesi. Il bisogno di investigazione di sé, si conoscenza e di aiuto è diventato, se non bisogno di massa, certo una domanda che avanza e si fa drammatica, specie tra i giovani e le donne; le risposte istituzionali sono largamente inadeguate: da una parte, e nei casi più gravi, la psichiatrizzazione (manicomio o clinica per malattie mentali) e dall'altra psicofarmaci più o meno rimborsati dalle mutue, qualche CIM (Centro di Igiene Mentale) assediato da richieste cui non può rispondere, e le sedute di analisi individuale, inabbordabili da chi, pur proletario o proletarizzato (operai, disoccupati, studenti, donne), l'inconscio che l'ha, ma non ha i soldi per occuparsene. Nel silenzio delle istituzioni nascono allora i gruppi, più o meno spontanei, più o meno "selvaggi", in cui la gente si aggrega e parla di sé.

Come esempio e campione, traverso il quale svolgere questo primo tema, mi pare cronisticamente corretto scegliere una realtà terapeutica che emerge, nel paesaggio a volte confuso della "analisi di gruppo", con caratteristiche non ordinarie. Alcune di esse sono percettibili, per così dire, ad occhio nudo: la gratuità assoluta e il numero dei partecipanti, complessivamente valutabile a circa seicento persone, divise in tre gruppi, che si riuniscono in tre giorni diversi della settimana, con lo stesso analista. La qualità dei partecipanti pur non essendo esclusiva di questa situazione è, qui, sottolineata da una forte omogeneità,; è quello che, a partire dal febbraio scorso, si definisce come il "Movimento", a formare la popolazione di base in questa sede (una piccola aula dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma, diretto dal professor Giancarlo Reda). E' dunque la folla giovanile - maschi e femmine - diventata protagonista, anche drammaticamente, della scena politica italiana negli ultimi dieci mesi.
Su questo strato di fondo si innestano poi iscritti al PCI (ma sempre giovani), molte donne, alcuni medici (non soltanto psichiatri o psicoanalisti) qualche "nome" del mondo dello spettacolo, ovviamente più politicizzato (il regista Marco Bellocchio, la sua compagna, l'attrice Gisella Burinato).
Fin qui gli elementi esteriori che pure distinguono questo gruppo dagli altri. Gli elementi invece più profondi di diversità sono da rintracciare nella persona dell'analista, Massimo Fagioli, e nel fatto che in questa sede si sperimenta una teoria che Fagioli rivendica come originale. Qui non si fa analisi secondo Freud, Jung, Lacan, ecc.. o attraverso una miscellanea di teorie e pratiche diverse: si fa analisi secondo quanto è scritto nei testi di Massimo Fagioli, che sono tre: "Istinto di morte e conoscenza", "Psicanalisi della nascita e castrazione", "La marionetta e il burattino".
Per capire serve intanto sapere chi è Massimo Fagioli. Buon rieducatore o guru?
Professionalmente ha tutte le carte in regola, Medico psichiatra, prime esperienze "manicomiali" a Venezia e quindi a Padova, primi tentativi (metà degli anni sessanta) di gestione diversa del manicomio, poi trasferimento in Svizzera, nella clinica dell'antropsichiatra Ludwig Binswanger, dove vive per un anno in una comunità terapeutica (malati di mente, medici, infermieri).
Tornato in Italia costituisce egli stesso una comunità di questo tipo, ed incomincia a fare analisi didattica con il freudiano Nicola Perrotti. Ammesso nella Società Psicoanalitica Italiana (Spi), esercita la professione privata, e comincia ad elaborare le teorie oggi contenute nei suoi testi, attraverso le quali si pone come "eretico" rispetto a tutt'intera la tradizione e la prassi psicoanalitica (con l'esclusione parziale di Wilhelm Reich, come l'unico che abbia tentato la saldatura tra psicoanalisi e politica).
Scrive "Istinto di morte e conoscenza" e nel cerchio chiuso dei freudiani ortodossi viene allora considerato un talento; Franco Fornari, tra gli altri, parla di "scoperta" nella psicoanalisi (Congresso di Vietri 1971). Dal momento in cui il libro è pubblicato sopravviene l'ostracismo: nel febbraio del 1976 lo si costringe ad uscire dalla Spi. Già alla fine del '75, però, erano incominciati i suoi seminari.
Sentiamo, adesso, ciò che dice Massimo Fagioli.
Si può essere psicoanalisti e non freudiani (né junghiano, né lacaniani)?
«Non è nuova la psicoanalisi, è nuovo Freud. Così come non era nuova l'America, era nuovo Colombo". Questo lo scriveva il romanziere Arthur Schnitzler, nel primo decennio del secolo. Oggi, a quarant'anni dalla morte di Freud, si può e si deve dire la verità: non era nuovo neanche Freud. La psicoanalisi è sempre esistita: è esistita in Shakespeare, nella tragedia greca. Si tratta di tradurre in scienza, utilizzabile da tutti, ciò che per gli artisti è intuizione.»
Ci sono alcuni concetti-chiave della teoria che tu hai formulata, e che pratichi nei gruppi di analisi collettiva. Essi sono, mi pare, quelli di "Istinto di morte, fantasia di sparizione, inconscio mare calmo, investimento sessuale", tutto un meccanismo, se ho capito bene, che si mette in moto nell'istante della nascita e poi, ancora, "invidia e bramosia". Puoi spiegare di che si tratta?
«Dell'istinto di morte Freud ha parlato tardi, nel 1920: ma, oltre ad essere stato preceduto, su questo argomento, almeno da due dei suoi allievi, Adler e Steckel (il "furto", in Freud, è sempre presente), c'è da dire che, ancora una volta, non si inventava nulla: l'istinto di morte appartiene al nichilismo russo, si profila già nell'Ottocento. Per me istinto di morte, non è necessariamente, tendenza negativa, distruttività: è piuttosto la prima pulsione del neonato a tornare da dove è venuto, nell'utero materno...»
Ma perchè, nascendo, si dovrebbe avere voglia di tornare indietro? Perchè dare per scontata questa situazione di "pessimismo esistenziale"?
"E' una questione di pura e semplice sopravvivenza: Il contatto con la realtà esterna, la realtà inanimata (luce, freddo, ecc.) è ostile al bambino, che finallora se n'è rimasto immerso beatamente nel liquido amniotico.
Il contatto sessuale, stabilito attraverso la cute, con il corpo della madre, produce nel bambino appena nato, il ricordo di ciò che io chiamo inconscio mare calmo. Il meccanismo della nascita è il seguente: il bambino nasce e in lui opera immediatamente l'istinto di morte, come pulsione a ritornare nel ventre della madre: per sopravvivere, egli ha bisogno di annullare la realtà esterna, ostile, che lo circonda (fantasia di sparizione): però, nello stesso momento, si forma in lui il ricordo dell'inconscio mare calmo, e il bambino, esprimendo la propria libido, cerca un investimento sessuale nel rapporto umano: cerca la madre, il seno materno.
Se questo primo rapporto fallisce, fallisce anche l'uomo come essere sociale (secondo la definizione di Marx). Quindi depressione, schizofrenia, ecc.
Ma con questa teoria non ti pare di rafforzare la pressione che l'intera cultura dominante (maschile) ha fatto fino ad oggi sopra la donna, responsabilizzando soltanto lei dell'eventuale infelicità del figlio? L'inconscio mare-calmo, il seno materno ... Tutto dipende da noi, l'aborto - come del resto aveva scritto Pasolini - è un'aggressione all'eden pre-natale, al tuo, quindi, "inconscio mare calmo..." O no?
L'aborto è comunque un fallimento, ma il rapporto col corpo della madre è qualcosa che si stabilisce gradualmente - non prima, senza dubbio, del 180esimo giorno dal concepimento - e, ci tengo a sottolinearlo, ha importanza soltanto dopo la nascita del bambino. In questo, davvero, siamo tutti uguali, e tutti, quindi, potenzialmente felici , al contrario di ciò che diceva Freud, perchè tutti disponiamo di un identico inconscio-mare-calmo, al sicuro da qualsiasi aggressione, anche dalle eventuali nevrosi delle madri incinte...
E il rapporto col seno materno, come primo rapporto da cui dipenderanno tutti gli altri?
Non è importante che la madre allatti, è importante l'investimento sessuale della madre nei confronti del figlio: perciò una maternità felice è soltanto quella della donna realizzata sessualmente, che conosce il piacere del proprio corpo, che gioca col proprio corpo e con quello del bambino.
"Invidia, bramosia, frustrazione positiva" sono altre nozioni portanti della tua teoria. Che significano?
L'invidia non ha niente a che fare col desiderio, come diceva Freud. Ha a che fare con l'odio: la bramosia è il voler introiettare l'altro, mangiarlo, divorarlo: amore come possesso e distruzione, e quindi non-amore. La frustrazione positiva è invece un atteggiamento da assumere da parte di chiunque voglia, o debba, «fare l'analista» nei confronti di un altro: e significa saper dire no all'altro, nel suo stesso interesse. Esempio: quando il bambino infila le dita nella presa di corrente, tu lo strappi via dal pericolo; lo fai nel suo interesse, e gli dimostri, così, di avere interesse per lui.
Tu infatti l'adoperi nei tuoi gruppi di analisi collettiva; qual è l'obiettivo di questa attività?
L'analisi ha sempre come obiettivo la cura della psiche; è la trasformazione della psiche, che sottintende, nella maggior parte dei casi, la cura di essa. L'analisi è: interpretazione (strumento) - trasformazione (obiettivo) - cura (effetto).
Che significa per te "interpretazione"?
Significa che io, analista, debbo interpretare, cioè rendere esplicito il significato di ciò che tu mi porti in analisi : sogni, associazioni di idee, fatti tuoi, ecc.
Ma questo rigore - interpretare e basta, non dar consigli, non intervenire - non è in contraddizione con la tua polemica contro gli analisti che ascoltano, tacciono e intascano l'onorario del paziente?
Ma quelli non ascoltano neppure. Ricevono telefonate, pensano ai fatti proprio. Fanno, insomma, fantasie di sparizione sulla persona che hanno davanti. E questo succede perchè l'analista, spesso, è più malato del paziente: malato di invidia, di bramosia, di istinto di morte/annullamento. L'analisi buona è quella che realizza interamente il rapporto umano, per incominciare, tra analista ed analizzando...
Un altro dogma freudiano che tu stai abbattendo è quello del pagamento. I tuoi gruppi sono gratuiti. Allora non è vero quello che diceva Freud che, se non si paga, l'analisi non funziona, no riesce?Il fatto del pagamento ha attinenza con la cura soltanto quando il rifiuto di pagare - se se ne hanno i mezzi - esprime la bramosia del paziente nei riguardi dell'analista. Se tu guadagni tre milioni al mese, e mi vuoi dare mille lire a seduta, questa tua bramosia va frustata, e me ne devi dare venti. Nella società di domani, comunque, l'analista dovrebbe essere retribuito dalla collettività e quindi, gradatamente, scomparire.

domenica 26 luglio 2009

L'inizio... Adele Cambria e "il Giorno"


Per leggere cliccare qui:



Tratto da “Dieci giornalisti e un editore” di Luciano Simonelli

venerdì 24 luglio 2009

Pasolini cita Adele Cambria









Di Pier Paolo Pasolini
Tratto da "Poesia '99" Annuario a cura di Giorgio Manacorda.
Questa lirica rappresenta una delle poesie che Pasolini aveva rinunciato ad inserire nella raccolta "Trasumar e organizzar" (Poesie rifiutate 1968 - 1969).
Pasolini voleva con "La poesia dove non c'è" scoprire se e quanto è presente la poesia nelle pagine culturali, nei giornali, nelle scuole e nell'editoria pagamento.
Inutile ricordare la grande amicizia tra Pier Paolo e Adele...

mercoledì 22 luglio 2009

ADELE CAMBRIA --- OLIMPIA MAIDALCHINI PAMPHILJ - COGNATA DI INNOCENZO X°

Olimpia Pamphilj, è probabilmente, l'unico fantasma romano - essendo Roma da sempre, città troppo scettica e solare per inventare fantasmi - ma è certamente l'unico fantasma femminile che la leggenda popolare abbia installato, solidamente, nel cuore della città eterna.

Si racconta infatti che Olimpia, cognata di Papa Innocenzo X° (Gianbattista Pamphilj), allo scoccare della mezzanotte esca, ancora oggi, chiusa in una sepolcrale carrozza nera, dal suo palazzo in Piazza Navona e si diriga a gran velocità a ponte Sisto, sul Tevere sempre stringendo con cupidigia tra le robuste braccia matronali le due casse colme di monete d'oro che sottrasse, ingorda, al Papa moribondo.

Ma, arrivata la carrozza sul ponte, i neri cavalli si imbizzarriscono e precipitano nel fiume la donna più potente e più celebre della Roma secentesca. Fare i conti, ora, negli anni del post-femminismo,delle donne in carriera, della " teoria della differenza sessuale ", con un personaggio come quello di donna Olimpia Maidalchini, cognata di Papa Innocenzo X° e sua intima consigliera (oltre che unica erede), risulta piuttosto imbarazzante.

Fu, senza dubbio la padrona di Roma negli anni del Pontificato di Innocenzo X°, di cui aveva sposato in seconde nozze, il fratello: l'anonimo Pamphiljo Pamphilj, un Nobile già vecchiotto all'epoca del suo matrimonio con la provinciale signora, Olimpia era nata a Viterbo nel 1594), ma che ebbe il merito di introdurre nell'alta società romana questa creatura di una vitalità prepotente, con uno straordinario senso degli affari e delle clientele e, in più, provvista di un sicuro intuito e gusto per le belle arti, il lusso, lo sfarzo.

Fu lei a estromettere da Piazza Navona i fruttaroli che l'ingombravano di vividi colori, ma anche di bucce e immondizie e che s'accamparono quindi a Campo dei Fiori; fu lei a suggerire ad Innocenze X°, di affidare l'abbellimento della casa dei Pamphily affacciata su quella piazza, a Gerolamo Rainaldi, e così nacque, tra il 1644 e il 1650, in pochi anni, lo splendido Palazzo che oggi appartiene all'Ambasciata del Brasile.

Anche la chiesa di S.Agnese, così voluttuosamente, sinuosamente "abbracciata", a Palazzo Pamphily, è opera dello stesso architetto, che era entrato nelle grazie di Olimpia.

E ancora, la mirabolante Fontana dei Fiumi, il Bernini potè realizzarla soltanto perché aveva avuto l'accortezza di regalare alla cognata di Innocenzo X° un prezioso modellino d'argento che ne prefigurava le forme.

Il Papa, nella sua visita quotidiana alla Pimpaccia (così l'avevano soprannominata i romani), vide il progetto e decise di commissionare l'opera al Bernini, che aveva fino a quel momento scartato, perché era stato l'architetto favorito del suo precedessore, Urbano VII° Barberini: e tra i Pamphily e i Barberini le ostilità, prima velate, poi esplicite (Innocenze X° tentò di espropriarli di tutti i loro beni e di espellerli definitivamente da Roma), erano state sempre fortissime.

Insomma, si può dire che Olimpia sia stata l'ispiratrice segreta (ma poi nemmeno tanto), del piano urbanistico concepito da Innocenzo X°, e che, da Piazza Navona al Gianicolo, dove l'Algardi costruì per i Pamphily il delizioso Casino di recente restaurato, contribuì ad accrescere lo splendore di Roma e l'egemonia universale del papato nel momento in cui esso attraversava invece una grave crisi politica, Ovviamente, la Storia, quella con la esse maiuscola, concede a Olimpia, come altre sia pur rare donne cui riuscì, di "ideare", il progetto urbanistico di una città (si veda il caso di Ginevra Bentivoglio a Bologna), soltanto il ruolo dell'intrigante, femminista, fastidiosa "eminenza grigia", alle spalle del proprio uomo: rè, signorotto o Papa. E maggiore è lo scandalo sollevato da tali comportamenti femminili, più chances hanno, le "malvagie",comprimarie dello spettacolo del potere, di restare nella memoria storica, o addirittura come nel caso di Olimpia di trasferirsi nella leggenda.

La fama di Olimpia, senza dubbio, è stata salvaguardata, nel corso dei secoli, dal mito delle sue nefandezze.

Pare che abbia avuto anche un figlio, Camillo, dal cognato monsignore, quando tutta la famiglia Pamphily, si trasferì a Napoli, per seguire Gianbattista, nominato nunzio apostolico presso il viceré spagnolo.

Il figlio, comunque, fu attribuito al marito e lo diseredò quando egli osò sfidarla sposando Olimpia Aldobrandini, che alla mamma non piaceva affatto.

Si racconta pure che la Pimpaccia, non contenta di aver gestito in prima persona potere e ricchezze dello Stato Pontificio (e la statua di Pasquino recitava: "chi è persona accorta corre da donna Olimpia a mani piene e cioè che vuole ottiene. E' la strada più larga la più corta"), finì col derubare il povero Innocenzo X°, in agonia, delle casse d'oro nascoste sotto il suo letto.

Si racconta infine che la Pimpaccia riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli; ma almeno, senza ostentare false pruderie da signora virtuosa, lei dava protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni.

Da "il Giorno" - Adele Cambria

venerdì 17 luglio 2009

Adele Cambria e Marco Pannella

“Il carisma è soltanto una lunga pazienza”

“Ma tu chi sei?”

Interviste inconsuete a personaggi notissimi

PANNELLA

Dall’unione goliardica al Partito Liberale fino ai “nuovi radicali”

di Adele Cambria

SOMMARIO: “Il Pannella che digiuna, il Pannella che s’imbavaglia in Tv: un’espressione folle, un fatto bestiale. La bestia rara, il mostro, il buffone. E’ il risultato della censura televisiva: sono l’unico uomo politico italiano, l’unico leader che per tre anni e mezzo non è mai andato “in voce” né al Tg1, né al Tg2, né al Tg3, né al Gr1, al Gr2 o al Gr3…”. Riflessioni su immagine e identità radicale nel mezzo della campagna per la raccolta di almeno quindicimila iscrizioni al partito radicale.

(IL GIORNO, 21 gennaio 1987)

(a.c.) Nasce a Teramo il 2 giugno 1930, da una madre francese nata tuttavia in Svizzera, e che ha un nome che in Italia è esclusivamente maschile, Andrea (il cognome è Estechon). Il padre è un ingegnere. La famiglia paterna, abruzzese, agiata, di piccoli proprietari terrieri, annovera uno zio monsignore, don Giacinto Pannella, il cui nome viene imposto al bambino, che tuttavia, fin da piccolo, sarà sempre chiamato Marco.

Marco Pannella nasce alla politica molto precocemente, entrando all’Università nell’Ugi (Unione goliardica italiana) e diventandone presto un leader carismatico (aggettivo che non gli piace e che rifiuta costantemente). Accanto a lui nell’Ugi crescono altri uomini politici, tra i quali l’attuale presidente del Consiglio, Bettino Craxi.

Dall’università alla politica, attraverso il Partito radicale che personaggi molto anziani e autorevoli di Pannella (Nicolò Carandini, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Leo Valiani, Bruno Villabruna) costituiscono nel 1955. Pannella, che a quindici anni s’era iscritto al Partito liberale (aveva scoperto in edicola il quotidiano del partito, “Risorgimento liberale”, e ne era stato attratto), coopera a formare ben presto l’ala di punta del nuovo partito: essa prenderà il nome di “Sinistra radicale” e, nei primi anni Sessanta, raccoglierà l’eredità di un partito disgregatosi in parte per la “purezza impolitica” dei suoi fondatori, in parte per la sua “doppia anima” originaria (una laico-liberale moderata e un’altra rivoluzionaria-democratica).

La “Sinistra radicale” - che nasce proponendo, per bocca di Pannella, un’alleanza laica dal Pli al Pci - si caratterizzerà, con la rifondazione del partito (dal congresso del 1967 in poi), attraverso la tematica dei diritti civili. I “nuovi radicali”, come saranno definiti, sono più “politici” che “teorici” (ma anche più “idealisti” che “politici”), e preferiscono comunque l’azione alla riflessione che ha segnato la straordinaria stagione dei convegni degli “Amici del Mondo”. In breve, i nuovi radicali trasferiscono in politica gli emergenti bisogni d’emancipazione della società italiana. Punteranno quindi le loro carte sul divorzio (nel 1968 si costituisce la Lid), l’obiezione di coscienza (Loc), il pacifismo, la liberazione femminile (Mld, Cisa, battaglia per la depenalizzazione dell’aborto), la libertà sessuale (Fuori) e, via via negli anni, la riforma della giustizia e delle carceri, la lotta contro la fame nel mondo, ecc. ecc. Dal 1976 il Pr è presente nel Parlamento italiano, dal 1979 in quello europeo. Il soggettivismo politico, che i radicali reinventano in Italia, fatalmente si riassume in un nome e in un personaggio: Marco Pannella.

Roma, gennaio

Marco, che rapporto hai con la tua immagine pubblica?

“Un rapporto doloroso…”.

- Nel senso che ti ci riconosci, immagino… Ma nessuno si riconosce nell’idea che di lui, o di lei, hanno gli altri… Non è così?

“Questo è un luogo comune - … il fatto di non essere soddisfatto di come la tua immagine arriva agli altri… - e perciò, come tutti i luoghi comuni, è falso. C’è sempre una ragione per cui la tua immagine pubblica risulta alterata. Nel mio caso, io regno attraverso l’assenza, e non attraverso la presenza, nei mezzi di comunicazione di massa.

- Ma se sei uno dei personaggi più clamorosi dell’Italia degli ultimi dieci, quindici anni…

“Clamorosi, forse, ignoti di sicuro. Io esisto, certamente, come tu dici, nell’immaginario collettivo: ma anche Landru esisteva nell’immaginario collettivo, anche gli antifascisti, durante il fascismo, erano demonizzati - e quindi esistevano - nell’immaginario collettivo. Credimi, non sono io quello che appartiene all’immaginario collettivo italiano. E non sono io perché i tenutari dell’informazione televisiva nel nostro paese…”.

- Scusami, io ho l’impressione che tu mitizzi la tv… Non sono in tv, quindi non esisto. Ma a me pare, al contrario, che proprio tu sia la dimostrazione più brillante del fatto che non è necessario farsi vedere in televisione per essere conosciuto. O no?

“Proverò a farmi capire usando un esempio: immagina Luciano Pavarotti, immagina che di lui si senta dire che è un meraviglioso cantante d’opera, si mormori, si vociferi della sua bravura, del suo genio, ma, alla prova dei fatti, per la grande maggioranza delle persone, che non hanno l’occasione o la possibilità di andarlo a sentire in teatro, Luciano Pavarotti sia soltanto una faccia sui nostri teleschermi, il suo grande corpo florido, il suo viso giovanile, e la sua voce, che è il quid, la ragione stessa del suo essere Pavarotti, venga fatta ascoltare ai telespettatori soltanto un attimo, nell’istante del do di petto. Quel do di petto che è il momento massimo della creatività del tenore, della sua arte, del suo genio, della sua fatica, dato così, come un urlo, diventa un’espressione folle e bestiale. Così è per il Pannella che digiuna, il Pannella che si imbavaglia in tv, ecc. ecc. Un’espressione folle, un fatto bestiale… La bestia rara, il mostro, il buffone, o quello che vuoi… E questo è il risultato della censura televisiva: io sono l’unico uomo politico italiano, l’unico leader, diciamo, che per tre anni e mezzo non è mai andato “in voce” né al Tg1, né al Tg2, né al Tg3, né al Gr1, né al Gr2, né al Gr3… Perciò ti dicevo che il luogo comune secondo cui nessuno si riconosce nella propria immagine pubblica è sempre falso. Ci sono delle ragioni per cui non ci si riconosce. Per me sono quelle… Tu dici: sei la dimostrazione più brillante che non serve apparire in tv per essere conosciuto… Ma conosciuto come? Io sono una persona viva e dentro quell’immagine ci crepo. Ma ci crepa anche il Paese… Oggi il 90% della gente se sente parlare di Pannella ride. E’ un riso molto triste, un riflesso condizionato… Ridevano quando digiunavo…”.

- Ecco, il tuo digiuno, il digiuno dei radicali. Parliamone. E’ stato il gesto che più di tutti gli altri, forse, ha consolidato la tua immagine di provocatore irritante, se non di “buffone”… Quando poi gli irlandesi hanno cominciato a morire, digiunando contro l’Inghilterra… Sciascia, ai tempi dei tuoi primi digiuni, scrisse che l’ombra della fame aveva sovrastato per troppi secoli gli italiani perché potessero apprezzare un gesto del genere… E Indro Montanelli, al tempo dei digiuni degli irlandesi, scrisse che tu potevi soltanto o morire o fallire, fallire politicamente, a quel punto… Che cosa rispondi?

“Sciascia ha cambiato totalmente opinione. Io non credo comunque che gli italiani “rimuovessero”, come diceva lui, il digiuno per l’eredità di fame che avevano alle spalle, e quindi scattasse in loro il meccanismo del riso dell’incredulità… No, perché nelle caserme, nelle carceri, anche in Italia, s’è sempre digiunato per protesta. No, è che la classe dirigente aveva stabilito che il digiuno dei radicali era ridicolo e falso. Quindi foto deformi di un Pannella grassissimo trasmesse al Tg1 per illustrare la notizia dei miei digiuni, insinuazioni sul numero dei cappuccini bevuti. Perfino, il digiuno della sete, che ho fatto a Madrid sotto il controllo dei medici, in un ospedale pubblico, e nel corso del quale ho perso quattordici chili in tre giorni e mezzo, è stato messo in dubbio…”.

- Resta il fatto che gli irlandesi si sono lasciati morire…

“Ma perché loro sono dei soldati, il loro digiuno è violento, digiunano contro, contro i nemici; noi invece digiuniamo per la speranza, per convincere i nostri interlocutori a rispettare le regole che essi stesi si sono dati… La prima volta, Roberto Cicciomessere e io digiunammo perché il Parlamento discutesse senza altri rinvii la proposta di legge sul divorzio… Perché la discutesse, non perché l’approvasse… Digiunavamo quindi perché il Parlamento rispettasse se stesso, applicando le regole che s’era dato… E così è stato sempre…”.

Guardo Marco Pannella che, in un giorno di festa, alle dieci del mattino, nella sede dei gruppi parlamentari deserta (se non per i radicali), usa con soavità, per convincermi, l’intera “potenza” del suo personaggio (che io d’altronde conosco dai tardi anni Cinquanta, quando irrompeva nell’austera redazione de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, e, come scrisse più tardi, acutamente, Arrigo Benedetti, tutti si chiedevano: “Ma che ha Pannella? E che vuole?… E’ giovane, è bello, può essere felice, al mondo non esiste solo la politica…”). Faccio, mentre lui torna al suo chiodo fisso, la tv, pensieri probabilmente meschini: per esempio, che sia un grande giornalista frustrato dal fatto di non avere scelto (o potuto scegliere, a causa delle sue idee) questo mestiere. Che abbiano ragione molti suoi ex fedeli, oggi nemici (chi avrà avuto torto, tra loro?), i quali hanno coniato, per lui, uno slogan: “Chi non è con me è contro di sé”. Come dire: la perfezione del ricatto morale. Se non sei con lui, se non lo segui, co

ndividi, obbedisci, vai contro i tuoi stessi interessi. E se poi fosse vero? Comunque, insisto:

- Senti, Marco, a me è sempre parso infantile che i radicali, avendo fatto propria la causa dei senza-potere, continuino a lamentarsi perché non li lasciano entrare nell’area del potere. Non ti sembra una contraddizione?

“Perché tu purtroppo hai una concezione cattolica del potere, lo demonizzi. Il potere che esigiamo noi è altro, è la forza di governo, e del buon governo. Il potere che esigiamo noi è quello parlamentare. Oggi in Italia il Parlamento non ha più nessun potere, dovrebbe invece averlo, e sarebbe una forza positiva. D’altro canto, il Pci non è mai stato forza di governo (dal 1947), ma ha un immenso potere. Il potere è potere sugli altri, e, in questo senso, non ci interessa: il governo, la forza di governo, ha invece come suo riferimento le cose da amministrare, la “res publica”.

- Tu insisti a dire “noi”… Ma per la maggior parte della gente il Partito radicale sei tu. Perché non vuoi ammetterlo?

“Perché non è vero. Sai cosa m’ha detto Craxi, ultimamente? Che quello che non si può non riconoscere ai deputati radicali, nel Parlamento italiano e in quello europeo, è la loro alta professionalità. Ma nessuno lo sa, perché i Cicciomessere, le Bonino, i Giovanni Negri, perfino i Rutelli, cioè acqua, sapone e cocacola, tutti, tutti, hanno voglia a essere bravi… Li censurano!”.

- Ma il carisma…

“Il carisma è soltanto una lunga pazienza. E’ la costanza dell’attenzione, come Simone Weil definiva l’amicizia… Amore, amicizia per gli altri, attenzione, lunga pazienza, questo sono le componenti del carisma”.

- Marco, parliamo del tuo privato. Voi radicali che avete portato la politica nel privato (secondi, in questo, soltanto alle femministe… e non ti arrabbiare!) custodite gelosamente il vostro privato. O, perlomeno, gli altri, i tuoi devoti, custodiscono gelosamente la tua vita privata. Per anni, non si conosceva neppure il tuo indirizzo… Ore è uscito un libro che lo dà, abiti in un’autentica soffitta di via della Panetteria, ed è stato svelato anche il nome della tua giovane compagna, una donna medico, Mirella Parachini…

“Ma io non ho mai tenuto segreto nulla. Vivere alla luce del sole è il sistema migliore per non essere visto. Perché tutti guardano dal buco della serratura. Mirella e io viviamo insieme da tredici anni, e ogni giorno sappiamo, serenamente, teneramente, che può essere l’ultimo del nostro rapporto. Invece dura. Lei aveva sedici anni quando l’ho conosciuta, al Partito radicale, diciannove quando abbiamo cominciato a vivere insieme. Ora è un’ottima ginecologa, ma, poiché non abbiamo potere, come tu dici, giustamente, fa ancora la pendolare… Lavora all’ospedale di Fondi.

“E così come non ho mai tenuto nascosta Mirella (ci mancherebbe altro… è una persona, non un quadro d’autore!), non ho mai tenuto nascosti gli altri che ho amato, che amo… Anzi, ho ostentato le mie amicizie con i compagni. Il mio obiettivo, fin da ragazzo, è stato sempre quello di togliere il fascino della “normalità” all’esistenza, per darle quello della “singolarità”… La vita è amore, l’amore è dialogo, il dialogo include le carezze… e la non violenza delle carezze o è consapevole, o è mero consumo”.

- Avete mei pensato, tu e Mirella, ad avere un figlio?

“Non siamo interessati a perpetuare meramente la specie. Quindi, la scelta di un figlio - se la faremo - significherà per noi due cambiare vita, per dar spazio a una terza persona”.

- Hai detto che, se non riuscirete a raggiungere le quindicimila iscrizioni entro gennaio, dopo lo scioglimento del Partito radicale tu andrai via dall’Italia e ti dedicherai a scrivere… Che cos’è questa decisione? Un lusso, quella della letteratura, che ti ha sempre tentato, e che potresti finalmente permetterti?

“Intanto, non è detto che il partito si scioglierà. Le iscrizioni piovono a ritmo sostenuto, premi Nobel come George Wald e Leontiev, molti ebrei e israeliani (questo mi ha fatto iniziare una riflessione approfondita sulle “colpe” d’Israele), si sono iscritti anche Sharanski e la moglie, e un altro esule dall’Unione Sovietica, il matematico Pliusc… e poi Marek Halter, il creatore del movimento francese “Sos-Racisme”, un leader emergente del nuovo movimento studentesco francese… E Ionesco, e tantissimo altri…”.

- Insomma, come al solito, avete gridato al lupo al lupo…

“Ma non lo sai che se non si fa il dramma si provoca la tragedia?… In quanto alla mia supposta vocazione letteraria, alla scrittura come fine, che tu mi attribuisci ora, nell’età dei capelli

bianchi… Be’, credo di non averla mai avuta, questa velleità. La letteratura non è il mio campo, anche se, ovviamente, ho cercato di nutrirmene per tutta la vita. Quello che invece io intendevo è

la scrittura come Storia, storia di un movimento, quello non-violento, che in Italia si è costituito in partito (i radicali) prima che altrove in Europa… Voglio fare questa Storia, ma con piccoli

libri, cento, duecento pagine, anche pamphlets, nella tradizione illuministica, se vuoi… Perché altrimenti rischiamo di essere sepolti dalla catastrofe della disinformazione. Penso comunque a

libri di dimensione internazionale, perché, fuori del nostro Paese, le nostre idee circolano con molta maggiore intensità e autenticità che in Italia…”.